sabato 8 giugno 2019

Un’italiana alla ricerca dell’acqua in India

#Rishikesh #ashram #acqua #fiume #Ganga #Gange: un'italiana alla ricerca dell'acqua in India

Dopo il mio matrimonio e le rituali visite al villaggio dei suoceri che, pure, mi piaceva ma dove non godevo di alcuna privacy e libertà, e dove mancavano i comforts piú basilari, cominciai a desiderare di andarmene un po' al nord alla ricerca di un clima più clemente e fresco.

Il Rajasthan era così infuocato in quel mese di giugno che trovavo faticoso anche solo pensare di uscire a fare due passi all'alba o al tramonto, momenti questi, in cui la gente si riversava in strada per recarsi al bazar o semplicemente per farai visita l'un l'altro, scambiare due chiacchiere sorseggiando un "chai" (tè speziato al latte) bollente e sgranocchiando qualche salatino.

Ad Alwar, a causa della siccità dei mesi estivi, c'era scarsità di acqua e disponevamo, alcuni giorni, per il razionamento, soltanto di pochi litri di acqua a persona.

Al mattino presto, all'alba, l'azienda responsabile della distribuzione d'acqua in città, apriva i rubinetti del grande serbatoio cittadino e, in ogni casa, tutti erano pronti a riempire secchi, pentole e tutti i contenitori di cui si disponeva per la provvista giornaliera.

Quando il flusso dai rubinetti cominciava a diminuire fino a diventare un filo, qualche goccia e poi più niente, guardavo la scorta fatta alcune volte con soddisfazione ma altre con un leggero senso di angoscia.

Anche così mi stavo abituando alla vita in India ventisette anni fa.

La mia presenza continuava ad essere anche troppo al centro della curiosità dei concittadini di mio marito e io sentivo il bisogno di diventare di nuovo una sconosciuta tra la folla.

Quando passavamo nel bazar tutti ci guardavamo, sorpresi ma sempre cordiali.
I negozianti ci invitavano ad entrare nel loro negozio anche solo per offrirci un tè o una bibita e garantirsi l'opportunità di scambiare due chiacchiere con me, in una cittadina non abituata a vedere stranieri e dove non accadeva mai nulla di straordinario evidentemente.

Ci furono anche inviti a pranzo, in alcuni casi e fu così che iniziai il mio training di preparazione di manicaretti della cucina Indiana. Infatti le donne mi volevano in cucina con loro e io, ben felice, osservavo il paziente sminuzzamento delle verdure e la sapiente dosatura delle spezie.

Ma il caldo e la scarsità d'acqua, in attesa del monsone mi spingevano ad allontanarmi da lì e convinsi mio marito a partire per una regione più fresca.

Ce ne andammo a Rishikesh che già conoscevo e dove speravo di trovare acqua a sufficienza e sollievo alla calura sulle rive del Gange.

Il viaggio fu lungo e piuttosto faticoso fatto su bus locali che, all'epoca, erano sempre scomodi e affollati.

Per fortuna erano previste, di tanto in tanto, delle soste durante le quali anche bere un tè era un grande sollievo.

Arrivati a destinazione compresi che ne era valsa la pena tanta era la frescura del luogo grazie alla ricca vegetazione e al fiume.

Molto verde, alberi ovunque.

Per chi nasce e vive in Italia, anche in città, il verde è così scontato!

Il fiume era affascinante e calmo, l'acqua scorreva tra grandi massi sopra i quali mi divertii a camminare per poi sedermi sul più comodo per un fantastico pediluvio che, in breve, rinfrescò tutto il mio corpo.

Intanto guardavo alcuni sadhu che, immobili, sedevano in meditazione e tutti eravamo cullati dal rumore dell'acqua.

In un luogo così è facile vuotare la mente e abbandonare qualunque pensiero o preoccupazione perché "tutto scorre".

Trovammo posto in un Ashram molto semplice e tranquillo, un po' in disparte rispetto agli altri dove alloggiavano, per lo più, occidentali che: venivano in India per praticare yoga e meditazione ma che, proprio per questo, non potevamo essere accettati perché non avevamo prenotato.
Ottimo! L'esperienza fu autentica, non mediata.

Alla reception vollero verificare, come di rito, a quei tempi, che fossimo veramente sposati: portavamo sempre con noi il certificato di matrimonio oltre al certificato di estensione del mio visto che era stato tramutato da "turistico" a "matrimoniale" dall'ufficio di polizia di Alwar che, per svolgere questa pratica aveva impiegato soltanto qualche ora. Mi sembrava tanto, all'epoca, ma, ora che conosco i tempi e i modi italiani in materia, devo riconoscere che mi fu concesso in men che non si dica.

Ci assegnarono una stanza pulita e modesta, come del resto erano tutte le stanze di quell'ashram. Avevamo con noi le nostre lenzuola e venne un inserviente a spazzare e lavare il pavimento prima che ne prendessimo possesso.

Sarei rimasta lì per settimane.

Il Guru dell'ashram volle incontrarci personalmente, incuriosito, soprattutto, per la mia presenza in quel luogo dove, a quanto pare, almeno all'epoca, chi non era indiano, raramente decideva di fermarsi per la notte.

Fu gentile, ci fece qualche domanda per capire come e dove ci fossimo conosciuti e ci diede la sua benedizione.

Le giornate di Rishikesh furono tranquille. Visitavamo i templi di rito e passeggiavamo. Intanto nubi monsoniche si addensavano nel cielo e, finalmente, ci furono molte ore di pioggia incessante durante le quali, si godeva il fresco da sotto il loggiato che correva lungo l'ashram.

C'erano molte librerie e presi qualche libro che trattava argomenti di yoga e astrologia vedica. Un paio di questi, le pagine ingiallite, si sono salvati dai miei innumerevoli traslochi e sono ancora nella mia piccola biblioteca a casa, proprio per aiutarmi a ricordare quella mia vacanza a Rishikesh.

N.B. questo articolo è pubblicato anche su IndiaYogaDeva.blogspot.it

giovedì 21 febbraio 2019

Da Calcata a Khajuraho - PRIMA PARTE

Da Calcata a Khajuraho - PRIMA PARTE

Una gita a Calcata, qualche mese fa, con mio figlio che non era mai stato in questo singolare paesino, nonostante si trovi a pochi chilometri da Roma, ha risvegliato in me un'antica memoria.

Infatti, fu proprio lì, a Calcata, che prese forma la mia idea di andare a esplorare l'India e spingermi fino a Khajuraho dove poi ho vissuto per diversi anni, dove mio figlio ha trascorso i suoi primi anni di vita e dove, ancora oggi, vivono molti dei miei cari amici indiani.

Ero giovane, curiosa ed entusiasta di ogni novità che riguardasse il mondo dell'Oriente, dell'India in particolare. Avevo già letto “Autobiografia di uno Yogi “: una pietra miliare che fu mio supporto durante il temuto ritorno di Saturno sul Saturno Radix.

Accadde che un paio di amici prendessero in affitti un appartamento a Calcata per “fuggire da Roma” durante il weekend.

La domenica, la loro casa era aperta a tutti coloro che desiderassero starsene un po’ lontani dai soliti luoghi di ritrovo romani e illudersi di scacciare l'idea della settimana trascorsa nella monotonia di un ufficio e di un'altrettanto monotona settimana alle porte!

Nei pomeriggi, alcuni, attorno a un tavolino, giocavano a carte, altri, tra cui me, con qualche pretesa intellettuale, seduti al tepore della fiamma del caminetto, parlavano, raccontavano le proprie esperienze, progetti e sogni.

Fu così che conobbi Giancarlo, il primo del gruppo a tentare di organizzare per sé un viaggio in India in solitaria. Era il 1981.

Passò l'estate, il gruppo si disperse tra vacanze domeniche al  mare, notti di “estate romana”.
Lui parti per l'India.
Tornò con tanti racconti da snocciolare davanti al caminetto della casa di Calcata in quelle domeniche d'inverno di freddo e pioggia gelata.

India, Pondicherry, Auroville, Agra, Calcutta erano nomi ricorrenti che suonavamo come musica alle mie orecchie. Spezie, colori, templi e divinità.
Libri che illustrassero in maniera approfondita la cultura, i costumi e le tradizioni, ce ne erano ben pochi, a quel tempo, in Italia. Una sola la guida turistica disponibile in libreria.

Pertanto i racconti di chi era già stato sul posto si rivelavano un vero pozzo, unico direi, di informazioni.

Infine, tra tutte le località dell’India narrate dall'amico esploratore, emerse un nome: Khajiuraho. Da non perdere, raccomandò Giancarlo.
Non facile da raggiungere, tra Agra e Benares, un po’ fuori dalle rotte comuni, ma, proprio lì, si trovava un gruppo di importanti templi tantrici antichissimi, molto ben conservati con le loro
sculture spettacolari.

Nel mio programma di viaggio, Khajuraho era una tappa che non avrei mancato per nulla al mondo anche perché, all'epoca, non avrei dato per scontato che sarei potuta tornare  in India più di una volta nella vita!!!

Fine ottobre 1982: biglietto aereo, passaporto munito di visto d'ingresso, nessun albergo prenotato. Partii con quella spensieratezza tipica dei giovani che affrontano l'ignoto senza un briciolo di esitazione.
Risuonava nelle mie orecchie l'eco di una canzone di Battiato che mi aveva accompagnata per tutta l'estate e che raccontava di dervisci danzanti, sciamani e “suono di cavigliere del Kathakali “.

Il viaggio fu complesso, articolato, si passava da un treno a un autobus per nulla confortevole, sballottati, a ogni sobbalzo, come sacchi di patate. Una volta, per un viaggio stimato di 22 ore, prenotai un “video coach”, sedili più confortevoli senza dubbio, ma dove, per tutta la notte, furono proiettati film musicali bollywoodiani a un volume così assordante ma che, oso dire, sembrava non disturbasse affatto gli altri passeggeri.

I miei occhi erano, senza sosta, spalancati sulle meraviglie di paesaggi, templi lungo le strade, abiti di smagliante colori, mercati di frutta tropicale e collane di fiori profumatissimi.

Ero proprio in un mondo difficilmente immaginabile nonostante i racconti di Calcata; dal mio scomodo posto di osservazione, la mia città, Roma, e l'Italia mi sembravano ormai un luogo lontano e sbiadito.

mercoledì 13 febbraio 2019

GEORGE - PRIMA PARTE UN AMERICANO A KHAJIURAHO

GEORGE - PRIMA PARTE

Oggi voglio parlare del mio amico George Carter, anche lui personaggio di spicco, della mia vita in India. Qualcuno che ha dato il suo grande contributo per compiere "il salto"!

Americano di Boston lo incontrai alla stazione ferroviaria di Jhansi dove fui spedita a prelevarlo, per condurlo a Khajuraho con il nostro taxi, da quello che allora era mio marito.

Andai con mio figlio e, quando lo vidi spuntare tra tutte le persone in arrivo con lo Shatabdi Express proveniente da Delhi, lo riconobbi subito.

Infatti le istruzioni erano: uomo alto, di colore, ovvero un nero americano. George era simpaticissimo e, abituato per la sua professione a esibirsi su un palcoscenico, sembrava che stesse sempre recitando una parte.

E, di certo, con il suo modo di fare lasciava la gente simpaticamente divertita, perplessa o preoccupata a seconda delle capacità personali di interpretare le sue espressioni da uomo di teatro

Si fermò a Khajuraho per molti giorni ed è per questo motivo che riuscimmo a diventare amici. Mangiava spesso nel mio ristorante con grandi elogi alla mia cucina, alla mia capacità organizzativa ma, al tempo stesso, non mancavano critiche e suggerimenti di cui io facevo tesoro.

George era un viaggiatore solitario in tutta la terra d'Oriente ed era già fuori dall'America da circa un anno.
Alloggiava spesso in alberghi o pensioni economici per ovvie ragioni, però, di tanto In tanto, si concedeva un paio di giorni in un hotel di lusso per ripulirsi, diceva lui, immergersi in una vasca da bagno piena di schiuma e godere qualche piccolo comfort di cui, quando si viaggia in Oriente a lungo, si sente un pazzesco bisogno.

A Khajuraho prese alloggio presso l'hotel Surya per diversi giorni e, prima di ripartire, se ne andò all'Holiday Inn e invitò me e mio figlio per un tè a bordo piscina, comprensivo di bagno per il quale chiese un permesso speciale poiché noi non eravamo ospiti dell'hotel.

Fu una pausa pomeridiana di relax per me e divertimento per mio figlio Aditya.

Naturalmente si permetteva di essere molto esigente negli hotel dove pagava almeno 8 volte la cifra che aveva sborsato al Surya e negli altri hotel a due stelle.

Quando non era soddisfatto di quello che riceveva in cambio del lauto ammontare richiesto dall'hotel, faceva le sue rimostranze teatrali.

Questo lo fece anche all' Holiday Inn. Chiamò il manager responsabile e, con il suo modo di fare divertente e sarcastico al tempo stesso, gli chiese:

"Questo è l'Holiday Inn, vero?"
"Si, signore"
"È un hotel 5 stelle?"
"SÌ"
" il vostro servizio è scadente" e ne illustrò i motivi per poi, concludere con la fatidica frase:

"who gave you the stars?"

 il seguito alla prossima puntata.

GEORGE - SECONDA PARTE - LA VEGGENZA

GEORGE- seconda parte

Mentre trascorrevano i giorni di quelle settimane in cui l’inverno indiano si fa tiepido e fa assaporare la primavera, George amava sorseggiare il suo cappuccino nel mio ristorante sotto il sole, gradevole, del mattino.

Aveva capito che, in quelle ore, avevo tempo di fare due chiacchiere, prima di cominciare a impartire ordini per la preparazione della salsa di pomodoro e altre prelibatezze.

Anche un viaggiatore solitario, ogni tanto, soffre di solitudine e cerca qualcuno che lo ascolti, qualcuno con cui poter condividere opinioni e impressioni di viaggio.
E si capiva bene che George stesse cercando un interlocutore ... o forse no!

Conosco, per esperienza, gli stati d’animo di chi attraversa continenti in perfetta solitudine.

Si può cambiare idea da un momento all’altro, si può decidere di partire all’improvviso da una località o di cambiare ristorante, albergo e itinerario senza dover mediare. Ma, al tempo stesso, i pensieri, le sensazioni si tengono per sé mentre, in fondo, l’essere umano ha bisogno di condivisione.

A quei tempi non c’era Internet e si era proprio isolati se il caso non ti permetteva di incontrare qualcuno disponibile a parlarti e condividere le sue esperienze, idee e sensazioni, in genere, interessanti e preziose e ascoltare le tue.

Lo scorso anno, ero a Delhi, sola, e stavo gustando la mia cena mentre sul mio cellulare continuavano ad apparire i messaggi dei miei amici; due ospiti dello stesso hotel dove alloggiavo mi hanno chiesto, a turno, di sedersi al mio tavolo e hanno iniziato a parlare raccontandomi le loro storie di viaggio, molto interessanti. Questa atmosfera mi ha riportato indietro di tanti anni.

So bene però che, all’inizio, ero piuttosto seccata della loro intromissione in un momento mio dedicato al gustoso pasto e ai miei pensieri.
Un tempo, nel periodo in cui conobbi George, avrei provato ben altri sentimenti.

Ma, torniamo e George: era un gran chiacchierone e tutto quello che diceva aveva, di solito, un fondo di ironia cui era impossibile resistere e mi strappava sempre una risata.
Sembrava quasi che il suo compito fosse quello di far divertire i suoi interlocutori. Era bravo anche nelle imitazioni.

A volte, ho pensato che alcuni suoi modi fossero studiati per rendere la persona cui si rivolgeva rilassata, farle abbassare la guardia e, nello spazio interiore che si creava, lui inseriva importanti informazioni o, per meglio dire, insegnamenti di vita.

Posso tranquillamente dire che l’ho considerato un mio Maestro.
La vita lo ha mandato quando avevo bisogno di fare un salto di qualità. In quegli anni e negli anni precedenti l’incontro con lui, avevo letto molti dei libri di Casteneda. Questo mi permise di riconoscere nel modo di fare di George alcune delle tecniche di Don Juan.
La mia energia si risvegliò e i miei occhi si aprirono, anzi, il mio terzo occhio si rimise in azione alla svelta.

Il seguito alla prossima puntata ...

GEORGE - TERZA PARTE - Who gave you the stars?

GEORGE - TERZA PARTE


Andai a Delhi dalla mia dentista e alloggiai in un piccolo hotel che mi consigliò George.
Main Bazar - Pahar Ganj
Lui si occupò di prenotare per me, era un ospite abituale, e chiese una "buona stanza".

Mi raccomandò che, all'arrivo, chiedessi di pulire bene il bagno (a quei tempi in India se prendevi alloggio in quella zona, il problema principale era il bagno, mai pulito abbastanza): una buona mancia all'inserviente e lui mai più mi avrebbe dimenticata e si sarebbe prodigato ogni giorno per mantenere la stanza pulita.
Così fu.
Per anni fui ospite del Roxy Hotel insieme a mio figlio Aditya Takshak che era sempre felice di scortarmi.

Delhi era città di "meraviglie" per lui perché si andava a comprare giocattoli, colori, album da colorare, libri per bambini che narravano le fantastiche storie degli dei e tutte quelle cose che a Khjauraho mancavano, compresi i gelati.

Nei mesi successivi, durante una di queste scorribande, incontrai George che aveva ripreso a viaggiare in lungo e in largo.

Fu così che una sera mi portò dove si accampavano a dormire i conducenti di rikshiò
a pedali.

Era inverno, dormivano sul loro veicolo, in precario equilibrio, avvolti in una coperta diversa ogni sera (presa in affitto per la notte) e restituita al mattino successivo.
La distribuzione delle coperte, previo pagamento, era effettuata da un camionista.  Questi poveretti, dopo aver lavorato duramente per tutto il giorno, consumata una cena frugale, dormivano di un sonno di piombo, per riposare le membra stanche, esauste a causa di una giornata trascorsa a scorrazzare per la città, gente, spesso, carica di bagagli.

Eppure, posso dire che, quando arrivavo alla stazione ferroviaria di Delhi, con mio figlio che, all'epoca aveva quattro anni, questi uomini, anche alle 10 di sera, avevano un sorriso per il bambino, e occhi amorevoli e colmi di stupore quando lui, con la sua semplicità, parlando hindi, facendosi carico di essere mio perfetto assistente, li informava su nome e indirizzo dell'hotel.
E, nel breve tragitto lo tempestavano di domande: la stanchezza cedeva il posto alla curiosità.
Ci salutavano e, con una stretta al cuore, elargivo una mancia consistente. Forse, da qualche parte, in un lontano villaggio, anche loro avevano un bambino da sfamare, che potevano stringere tra le braccia una volta l'anno ...

martedì 12 febbraio 2019

GEORGE - QUARTA PARTE - You can change your life

GEORGE - QUARTA PARTE 

"Puoi cambiare la tua vita, you can change your LIFE"

Queste le parole che continuano a risuonare nella mia mente quando penso a George. 
Ci stavo pensando da tempo ma non riuscivo a trovare le soluzioni in me. 
Ormai era chiaro: bisognava prendere un'iniziativa concreta, eppure segnavo il passo.
Devo, non devo. 
Sarà il passaggio giusto per me?
La vita in India era sempre intensa e interessante ma qualcosa di diverso doveva accadere: troppa stagnazione per il mio carattere. 
Il ristorante poteva andar da sé e io volevo entrare in qualcosa di più costruttivo, mettermi alla prova ancora una volta. 
Ma era la cosa giusta anche per mio figlio? Lui era molto legato a quel tipo di vita eppure sapevo bene che quelle tradizioni, ben presto, sarebbero state strette a un giovane che avrebbe vissuto, necessariamente, tra due culture.

Discussi molto questo punto di vista con George. 
In alcuni momenti, proprio non mi riusciva di vedere mio figlio crescere con tutte le limitazioni che la tradizione è la società in India imponeva e, tutt'oggi, impone. 

Lo sentivo che da qualche parte ci sarebbe stata un'esplosione, la Torre dei tarocchi era dietro l'angolo. 

Il matrimonio aveva ormai dato ciò che poteva dare, ma, su alcuni aspetti le energie non erano conciliabili e le sentivo scomode. 
Il tempo scorreva, in modo diverso e ripetitivo. 
Avevo cambiato città e Jaipur era adorabile. 
Ci ho lasciato il cuore al punto tale che ho bisogno di tornare lì spesso. 
Mi sento a casa mia come fossi a Roma. Le mura di cinta della città rosa, gli antichi palazzi, i vicoli affollati e maleodoranti nelle ore calde, le mucche che passeggiano ancora elemosinando un chapati o rubacchiando patate e cavolfiori ai venditori ambulanti. 

Tutto questo è stampato nella mia memoria e tutto è ancora lì ad aspettarmi quando torno.
Un mio caro amico mi chiese, a quel tempo, di scrivere un articolo su Jaipur che fu persino pubblicato su una rivista di viaggi. 
Un mio tributo alla città costruita in base a leggi astronomiche. 
Forse per questo Jaipur fu teatro della mia decisione di lasciare quasi come se, per un gioco di angoli, quadrature e trigoni, divennero "attivi" alcuni aspetti del mio tema natale e si determinarono, in breve, fatti ed eventi che mi permisero di partire. Perché accadano certi eventi non basta il momento giusto, ci vuole il posto giusto. 

Lo aveva detto a chiare lettere George:
"you can change your life!"

E il cambiamento avvenne a una tale velocità che non ebbi quasi il tempo di pensare.


sabato 3 febbraio 2018

Amici a Khajuraho

khajuraho madhyapradesh india



Un amico: Govinda Soni
La vita scorreva tranquilla a Khajuraho, soprattutto ai tempi del primo ristorante che era molto piccolo e, tutto sommato, almeno in quel momento non c'erano particolari preoccupazioni nella gestione.
Avevo scelto una postazione che mi sembrava ideale.
Il ristorante era stato ricavato su un terrazzo di fronte a un laghetto artificiale che, a quei tempi, serviva anche da lavatoio.
Le donne che abitavano negli immediati dintorni arrivavano, ogni giorno, con la loro grande cesta e tuffavano i panni in acqua, li insaponavano e  li battevano sulla pietra, a volte aiutandosi con un attrezzo di legno che somigliava molto a una mazza da cricket.
Così, quando non si lavorava in cucina c'era sempre uno spettacolo di colori, suoni e voci da godere.
A quel tempo c'erano pochissime auto a Khjauraho, forse una decina in tutto il piccolo paese. Pochi erano anche i risciò a motore.
La gente si spostava in bici, a piedi, in risciò a pedali.
Nella parte sottostante il nostro terrazzo c'era un piccolo negozio gestito da un altrettanto piccolo uomo che tutti chiamavano “Banarsi” ovvero "colui che viene da Benares" perché lui non era nativo di Khajuraho ma veniva proprio dalla famosa città santa che sorge sulle rive del fiume Gange.
Fu così che conobbi Govinda Soni.
Infatti, la casa di Banarsi era nel vecchio villaggio, poco distante dalla casa di Govinda  e Banarsi parlò di me a Govinda.
Era piuttosto insolito che una donna straniera si stabilisse a vivere a Khajuraho, quindi, la voce si era sparsa un po’ ovunque e c'era tanta curiosità.
Govinda, anche lui commerciante, decise di venire a conoscermi.
Da quel primo giorno, per volere dell'universo che muove il sole e le altre stelle, furono posate le prime fondamenta di un'amicizia sincera che si trasformò in una vera alleanza tra famiglie che è tutt’ora viva dopo ben 26 anni.
A quel tempo, Govinda aveva sei figli: cinque femmine e un maschio.
Da bravo padre indiano stava cercando di poter assicurare alla già numerosa famigliola un secondo maschio perché potesse sostenere e condividere le responsabilità del fratello nel momento in cui il padre, da vecchio, non avrebbe più potuto fronteggiare le esigenze di una famiglia numerosa e i doveri che essa richiede costantemente soprattutto con cinque figlie femmine da far sposare.
Purtroppo, il caro Govinda non ebbe neppure il tempo di invecchiare perché ci ha lasciati molto presto: io ero già tornata a vivere in Italia.
Govinda aveva costruito la sua casa di fronte al laghetto che si trova nell'antico villaggio di Khajuraho, dal terrazzo si gode una bella vista sul tempio dedicato al dio Brahma.
Come tutti i templi di Khajuraho il piccolo tempio del dio Brahma si erge su una piattaforma un po' elevata rispetto al livello stradale. I gradini di accesso al tempio ospitano sempre mucche e caprette che amano riposarsi mantenendo un regale distacco dalla strada polverosa.
Il negozio, com’è d'uso in quella zona, era al piano terra, mentre la famiglia abitava e
svolgeva la sua vita al piano superiore in puro stile indiano, meglio ancora, secondo tutte quelle regole antiche che scandiscono i giorni, le settimane, i mesi e gli anni di una famiglia indiana che vive la sua vita in un villaggio.

Una cucina sempre in funzione, un paio di stanze da letto, un terrazzo dove era sistemato l’angolo per il lavaggio dei piatti che, secondo la tradizione, se sono sporchi non possono entrare in cucina.
La casa è sempre là, la famiglia, con grandi sforzi, è riuscita ad ampliarla un po’ e ad apportare migliorie pur mantenendola semplice, direi essenziale. Sono persino  riusciti riusciti a ricavare due piccole stanze per ospiti paganti che desiderano vivere in famiglia anziché alloggiare in un confortevole ma anonimo hotel.
Il nome dell’attività “homestay” altro non è che lo stile autentico di Govinda: “friends in Khjauraho”.
Pochi mesi dopo il mio trasferimento a Khajuraho, tornai a Roma per far nascere mio figlio: correva l'anno 1993.
Rientrati a Khajuraho, nel caldo umido dei monsoni, quando ogni giorno di pioggia è una disdetta e una benedizione al tempo stesso, ricevetti la bella notizia che anche gli sforzi di Govinda e la sua tanto paziente quanto bella moglie, furono premiati: arrivò, di lì a poco, il loro secondo figlio maschio.
Mio figlio Aditya, nei primi anni della sua infanzia, ebbe, in tal modo, due piccoli amici con cui poter giocare: Vijai e Ravì.
Accadeva che, di tanto in tanto, mi prendessi qualche ora di pausa dal lavoro del ristorante per trascorrere un pomeriggio nel negozio di Govinda, dove i bambini potevano sedere insieme su una stuoia e giocare in tutta tranquillità tra di loro, con giocattoli di fortuna, mentre Govinda e io facevamo un po’ di chiacchiere sorseggiando qualche bicchiere di tè speziato preparato con cura dalla moglie e servito con solerzia, sempre accompagnato da un bel sorriso, da una delle figlie che ce lo recapitava scendendo con incredibile abilità un’impervia scala.
Govinda per mio figlio era “ciaciu Govinda” ovvero, zio Govinda.
I turisti che, animati da curiosità, osavano spingersi fino al vecchio villaggio erano poco numerosi ma, quelli che arrivavano fin lì, per godersi la quiete di un pomeriggio indiano, osservando la vita di questi abitanti discendenti dei sudditi della dinastia reale Chandela, finivano sempre per fermarsi ad ammirare i bellissimi oggetti di bronzo, per lo più antichi, che facevano mostra di sé nella vetrina e sugli innumerevoli scaffali all'interno del negozio.
Ogni tanto, Govinda riusciva ad aprire con me la porta del suo cuore dietro la quale si celavano le sue preoccupazioni, le sue inquietudini sul futuro, soprattutto quando, durante la bassa stagione del turismo, le vendite crollavano inesorabilmente e c'erano tante bocche da sfamare.
Eppure, posso dire di aver visto i suoi bambini sempre ben nutriti anche quando la cena era composta da un piatto di riso, una ciotolina di lenticchie e un contorno di cipolle crude. Ricordo, come fosse ora, il bambino più piccolo mangiare a morsi, con estremo gusto, la sua cipolla dopo averla stropicciata nel riso.
La famiglia è strettamente vegetariana.
Credo che la moglie di Govinda, Santosh, avesse una bacchetta magica nelle sue mani perché qualunque cibo servisse nel piatto, aveva sempre un gusto impareggiabile.

Negli ultimi anni ho avuto la fortuna di assaggiare di nuovo i suoi manicaretti.

I nostri figli sono diventati grandi e, nonostante, gli anni trascorsi senza mai incontrarsi, quando sono riuscita a organizzare il mio rientro a Khjauraho con mio figlio, due anni fa, è stato come se non si fossero mai lasciati. Aditya non avrebbe potuto avere amici migliori con cui scorrazzare a Khajuraho: accolto con gioia, sicuro e protetto ovunque andasse.
Il calore e l'amicizia della famiglia Soni mi hanno sempre fatto sentire una di loro, infatti i figli mi chiamano zia. Ancora oggi, sempre: “friends in Khjauraho”.