khajuraho madhyapradesh india
Un amico: Govinda Soni
La vita scorreva tranquilla a Khajuraho, soprattutto ai tempi del primo ristorante che era molto piccolo e, tutto sommato, almeno in quel momento non c'erano particolari preoccupazioni nella gestione.
Avevo scelto una postazione che mi sembrava ideale.
Il ristorante era stato ricavato su un terrazzo di fronte a un laghetto artificiale che, a quei tempi, serviva anche da lavatoio.
Le donne che abitavano negli immediati dintorni arrivavano, ogni giorno, con la loro grande cesta e tuffavano i panni in acqua, li insaponavano e li battevano sulla pietra, a volte aiutandosi con un attrezzo di legno che somigliava molto a una mazza da cricket.
Così, quando non si lavorava in cucina c'era sempre uno spettacolo di colori, suoni e voci da godere.
A quel tempo c'erano pochissime auto a Khjauraho, forse una decina in tutto il piccolo paese. Pochi erano anche i risciò a motore.
La gente si spostava in bici, a piedi, in risciò a pedali.
Nella parte sottostante il nostro terrazzo c'era un piccolo negozio gestito da un altrettanto piccolo uomo che tutti chiamavano “Banarsi” ovvero "colui che viene da Benares" perché lui non era nativo di Khajuraho ma veniva proprio dalla famosa città santa che sorge sulle rive del fiume Gange.
Fu così che conobbi Govinda Soni.
Infatti, la casa di Banarsi era nel vecchio villaggio, poco distante dalla casa di Govinda e Banarsi parlò di me a Govinda.
Era piuttosto insolito che una donna straniera si stabilisse a vivere a Khajuraho, quindi, la voce si era sparsa un po’ ovunque e c'era tanta curiosità.
Govinda, anche lui commerciante, decise di venire a conoscermi.
Da quel primo giorno, per volere dell'universo che muove il sole e le altre stelle, furono posate le prime fondamenta di un'amicizia sincera che si trasformò in una vera alleanza tra famiglie che è tutt’ora viva dopo ben 26 anni.
A quel tempo, Govinda aveva sei figli: cinque femmine e un maschio.
Da bravo padre indiano stava cercando di poter assicurare alla già numerosa famigliola un secondo maschio perché potesse sostenere e condividere le responsabilità del fratello nel momento in cui il padre, da vecchio, non avrebbe più potuto fronteggiare le esigenze di una famiglia numerosa e i doveri che essa richiede costantemente soprattutto con cinque figlie femmine da far sposare.
Purtroppo, il caro Govinda non ebbe neppure il tempo di invecchiare perché ci ha lasciati molto presto: io ero già tornata a vivere in Italia.
Govinda aveva costruito la sua casa di fronte al laghetto che si trova nell'antico villaggio di Khajuraho, dal terrazzo si gode una bella vista sul tempio dedicato al dio Brahma.
Come tutti i templi di Khajuraho il piccolo tempio del dio Brahma si erge su una piattaforma un po' elevata rispetto al livello stradale. I gradini di accesso al tempio ospitano sempre mucche e caprette che amano riposarsi mantenendo un regale distacco dalla strada polverosa.
Il negozio, com’è d'uso in quella zona, era al piano terra, mentre la famiglia abitava e
svolgeva la sua vita al piano superiore in puro stile indiano, meglio ancora, secondo tutte quelle regole antiche che scandiscono i giorni, le settimane, i mesi e gli anni di una famiglia indiana che vive la sua vita in un villaggio.
Una cucina sempre in funzione, un paio di stanze da letto, un terrazzo dove era sistemato l’angolo per il lavaggio dei piatti che, secondo la tradizione, se sono sporchi non possono entrare in cucina.
La casa è sempre là, la famiglia, con grandi sforzi, è riuscita ad ampliarla un po’ e ad apportare migliorie pur mantenendola semplice, direi essenziale. Sono persino riusciti riusciti a ricavare due piccole stanze per ospiti paganti che desiderano vivere in famiglia anziché alloggiare in un confortevole ma anonimo hotel.
Il nome dell’attività “homestay” altro non è che lo stile autentico di Govinda: “friends in Khjauraho”.
Pochi mesi dopo il mio trasferimento a Khajuraho, tornai a Roma per far nascere mio figlio: correva l'anno 1993.
Rientrati a Khajuraho, nel caldo umido dei monsoni, quando ogni giorno di pioggia è una disdetta e una benedizione al tempo stesso, ricevetti la bella notizia che anche gli sforzi di Govinda e la sua tanto paziente quanto bella moglie, furono premiati: arrivò, di lì a poco, il loro secondo figlio maschio.
Mio figlio Aditya, nei primi anni della sua infanzia, ebbe, in tal modo, due piccoli amici con cui poter giocare: Vijai e Ravì.
Accadeva che, di tanto in tanto, mi prendessi qualche ora di pausa dal lavoro del ristorante per trascorrere un pomeriggio nel negozio di Govinda, dove i bambini potevano sedere insieme su una stuoia e giocare in tutta tranquillità tra di loro, con giocattoli di fortuna, mentre Govinda e io facevamo un po’ di chiacchiere sorseggiando qualche bicchiere di tè speziato preparato con cura dalla moglie e servito con solerzia, sempre accompagnato da un bel sorriso, da una delle figlie che ce lo recapitava scendendo con incredibile abilità un’impervia scala.
Govinda per mio figlio era “ciaciu Govinda” ovvero, zio Govinda.
I turisti che, animati da curiosità, osavano spingersi fino al vecchio villaggio erano poco numerosi ma, quelli che arrivavano fin lì, per godersi la quiete di un pomeriggio indiano, osservando la vita di questi abitanti discendenti dei sudditi della dinastia reale Chandela, finivano sempre per fermarsi ad ammirare i bellissimi oggetti di bronzo, per lo più antichi, che facevano mostra di sé nella vetrina e sugli innumerevoli scaffali all'interno del negozio.
Ogni tanto, Govinda riusciva ad aprire con me la porta del suo cuore dietro la quale si celavano le sue preoccupazioni, le sue inquietudini sul futuro, soprattutto quando, durante la bassa stagione del turismo, le vendite crollavano inesorabilmente e c'erano tante bocche da sfamare.
Eppure, posso dire di aver visto i suoi bambini sempre ben nutriti anche quando la cena era composta da un piatto di riso, una ciotolina di lenticchie e un contorno di cipolle crude. Ricordo, come fosse ora, il bambino più piccolo mangiare a morsi, con estremo gusto, la sua cipolla dopo averla stropicciata nel riso.
La famiglia è strettamente vegetariana.
Credo che la moglie di Govinda, Santosh, avesse una bacchetta magica nelle sue mani perché qualunque cibo servisse nel piatto, aveva sempre un gusto impareggiabile.
Negli ultimi anni ho avuto la fortuna di assaggiare di nuovo i suoi manicaretti.
I nostri figli sono diventati grandi e, nonostante, gli anni trascorsi senza mai incontrarsi, quando sono riuscita a organizzare il mio rientro a Khjauraho con mio figlio, due anni fa, è stato come se non si fossero mai lasciati. Aditya non avrebbe potuto avere amici migliori con cui scorrazzare a Khajuraho: accolto con gioia, sicuro e protetto ovunque andasse.
Il calore e l'amicizia della famiglia Soni mi hanno sempre fatto sentire una di loro, infatti i figli mi chiamano zia. Ancora oggi, sempre: “friends in Khjauraho”.
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