domenica 21 giugno 2015

OMAGGIO AL NEPAL, TERRA DEGLI DEI, DI MONTAGNE, DI DAKINI - PARTE SECONDA




George aveva avuto intenzione di visitare Khajuraho da tanto tempo ma, a sua detta, tutte le volte che aveva tentato, c’era sempre stata qualche difficoltà nel prenotare il volo da New Delhi e il viaggio via ferrovia da New Delhi fino a Jhansi e via strada, su autobus locali, da Jhansi a Khajuraho, era piuttosto faticoso e lui, che era in giro da ben due anni in oriente, forse era un po’ stanco di farsi sballottare dagli autobus indiani.

Lo si poteva credere con facilità. Anche io, che ero e sono avventurosa e sempre pronta ad andare “da qualche altra parte”, dopo diversi anni di India, cominciavo a dare segni di stanchezza negli spostamenti di tante ore, soprattutto se ero costretta a viaggiare su autobus locali, piuttosto affollati e senza aria condizionata.

Insomma, diciamo che, in quel momento i pianeti erano pronti e l’Universo trovò il modo per facilitare la visita di George Carter perché aveva una missione da compiere.

Posso, senza esitazione, affermare che, quando lessi il suo nome su un fax che ne annunciava l’arrivo alla stazione ferroviaria di Jhansi, e bisognava mandare il nostro taxi a prelevarlo, io compresi, grazie a quelle antenne di cui tutti siamo forniti e che a me, ogni tanto, funzionano molto bene, che quella persona avrebbe avuto una funzione importante nella mia vita.

George arrivò a Khajuraho, prese una stanza in un hotel non lontano dal ristorante e venne subito a mangiare qualcosa. 
Cordiale, un po’ chiacchierone, cercò subito di entrare in confidenza con me per assicurarsi che la proprietaria avrebbe avuto qualche cura in più per i suoi pasti: intendeva fermarsi per una settimana almeno ed era un vero buongustaio.

Ero molto impegnata nel lavoro e, pur accertandomi che fosse servito al meglio, non gli prestavo un’attenzione particolare anche se avevo avuto quella “percezione” iniziale.

Mi occupavo di lui come di tutti gli altri ospiti, ovvero pretendevo che i ragazzi della cucina e della sala dessero il massimo dell’efficienza, simpatia  e familiarità, così come, io per prima, facevo. 

Volevo che tutti si sentissero benvenuti e “a casa" seppur lontani dalla loro terra, anzi, proprio per questo.

Sono sempre molto sicura che le cose che “devono accadere” accadranno e nulla e nessuno può fermare o deviare il corso degli eventi: d’altro canto non sarei un’astrologa se non lo credessi.

Dopo un paio di giorni di frequentazione del ristorante, una mattina, George, che aveva gustato una buona colazione, si trattenne a leggere, almeno così cercava di far credere.

Invece era in attesa che io fossi disponibile a fare due chiacchiere con lui.

Quando mi vide libera mi comunicò che voleva dirmi qualcosa e mi invitò a sedermi al suo tavolo. Questo accadeva spesso con i clienti del ristorante che preferivano avere informazioni su usi e costumi locali da chi, come me, viveva in India da anni. Ma non era questo lo scopo di George!

Mi parlò con serietà e senza mezzi termini. Andò dritto al punto e mi disse alcune cose molto veritiere che ritraevano il momento che stavo vivendo; mi parlò di mio figlio che lui considerava un'anima dotata di eccezionale sensibilità e intelligenza.

Io ero interessata e incuriosita da quanto mi diceva. 

Profondo osservatore e dotato di lunghe antenne ricettive, inizialmente, dubitai, dei suggerimenti che mi diede per affrontare quel momento della mia esistenza non tanto perché arrivavano da un estraneo, ma perché  io ci pensavo già da un po’ a mettere in atto quelle stesse soluzioni che mi arrivavano da lui ma ero piena di dubbi e di timori. 
Si sarebbe trattato di un cambiamento a tutto tondo della mia vita e di quella di mio figlio.

Punti interrogativi si stagliavano come giganti nella mia mente.

Lui mi disse chiaro e tondo che non dovevo perdere troppo tempo: basta tergiversare.
Io non sapevo proprio come attraversare il guado che la vita mi poneva davanti in quel momento e mi spaventava il "salto quantico".

George mi suggerì di andare a Kathmandù a consultare un famoso chiromante dal quale lui stesso aveva ricevuto avvisi e consigli utili.
Ne elogiò l’accuratezza nello studio delle linee della mano e nelle previsioni. 
Si disse certo che anche lui avrebbe visto quel cambiamento come inevitabile per me.

Per questo consulto avrei dovuto affrontare un giorno di viaggio in macchina, una notte di sosta a Varanasi e il volo per Kathmandù con i relativi collegamenti per e dagli aeroporti. Insomma, una piccola avventura.
Però, la viaggiatrice indomita che è in me, cominciava a “vederlo nella mente” questo viaggio: almeno, dopo tanto tempo, si profilava l’opportunità di una vacanza che avrebbe spezzato la quotidianità!

George mi spinse a partire con Aditya perché era giusto che prendessimo una vera pausa tutta per noi e mi assicurò che il bambino sarebbe stato felicissimo, che il Nepal era cambiato molto e più evoluto nell'accoglienza turistica. 
Mi aveva già dato prova di essere in grado di “vedere oltre il visibile” in quei giorni. Iniziai a sentirmi sollevata all’idea di questo viaggio, acquistavo sicurezza in me stessa, sempre di più.

Inoltre, per come funziona la vita in India, nessuno trova strano o esagerato che si possa provare l'interesse a recarsi anche molto lontano per consultare un bravo chiromante o per andare da un Guru, o in un luogo santo. 

Anzi, il viaggio, per motivi di questo genere è considerato da tutti una grande fortuna spirituale per l'anima che decide di compierlo.

Programmai anche delle escursioni  da fare con il bambino perché avevo deciso che ci si doveva proprio divertire, saremmo andati nella giungla, avemmo visto rinoceronti e coccodrilli, avremmo visto laghi, monti e neve. Conoscevo già bene il Nepal per cui sentivo che sarebbe stato semplice muovermi nella terra degli dei. 

E così fu.

Partimmo un mattino da Khajuraho con il nostro autista Pappù, instancabile guidatore, alla volta di Varanasi (Benares) dove avremmo preso l'aereo per il Nepal. Il percorso non era tra i più difficili, lui era abituato a quel tragitto. 
Potevo fidarmi della sua tenuta alla guida.
Durante le ore di viaggio lui masticava “pan” (foglia di betel imbottita di varie spezie e pezzetti di noce di betel) e, di tanto in tanto, una sosta per bere una tazza di “chai” (tè aromatizzato alle spezie e arricchito dal latte).

Non ero un’appassionata del "chai" venduto nei chioschi per la strada, perché, spesso, la bevanda era troppo dolce ma le pause per sgranchire le gambe erano sempre ben accolte e, inoltre, Pappù si faceva in quattro per far capire a chi lo preparava che la signora italiana che lui stava accompagnando, preferiva avere pochissimo zucchero.

Queste soste costituivano per Aditya un momento in cui poteva scorrazzare e giocare con i figli dei proprietari del chioschi, ce n'era sempre qualcuno, di questo si poteva star certi. Per me un’opportunità per scambiare due parole con persone semplici e curiose. Mio figlio parlava hindi perfettamente e loro volevano sapere come e perché. 
Rispondevo volentieri alle loro domande, si parlava del più e del meno, certo, ma quello che non passa dalle parole, passa attraverso sguardi che mai si dimenticano. 
Non c’erano mai barriere negli scambi di quegli sguardi veri, di gente che non teme di mostrare la propria anima e questo, in India, accade più di frequente che altrove. 

Non è intenzionale, è solo naturale!

In macchina si ascoltavano canzoni bollywoodiane.
Ricordo che Aditya adorava una canzone in voga in quel momento e voleva sempre quella cassetta “Pardesi” e tutti e tre, cantavamo felici “Pardesi, pardesi, giana nahì …”. Quando l’ho ritrovata su Youtube, che emozione!

Pappù era entusiasta che noi amassimo la sua musica, quando viaggiava con i turisti, perché questo era il suo lavoro, gli toccava, spesso, spegnere lo stereo.

A Varanasi ci fermammo la notte a ristorarci al Surya Hotel che mi conosceva di fama, anzi, per la verità conosceva il nome del mio ristorante; al mattino dopo passeggiata sui ghat, ho ancora delle foto di Aditya sulla spiaggia del Gange nella zona dove si ammassano gli instancabili e umili lavandai .

Mangiammo qualcosa sul posto, guardando il fiume. Il piccolo ristorante aveva, di buono, soltanto la spettacolare vista. Il cibo non era neppure vagamente gustoso, le raccomandazioni che mi erano state fatte da alcuni viaggiatori non erano risultate veritiere e ci consolammo con qualche fetta di pane tostato.

La temperatura era mite, il cielo sereno, il Gange maestoso e lento. 

Nel primo pomeriggio partimmo per il Nepal, eccitatissimi.
In breve atterrammo a Kathamdù: eravamo a casa! La felicità che leggevo negli occhi di mio figlio mi ripagava già in pieno della decisione presa.
Benedetto George!

Le montagne che circondano la valle ci sorridevano, il taxi ci portò in città prima che il freddo della sera, eravamo all'inizio di febbraio, ci entrasse nelle ossa.

Naturalmente alloggiammo alla Kathmandù Guest House, a Thamel, una delle più frequentate dove si poteva stare molto tranquilli per l’igiene e la pulizia impeccabile delle stanze.
Quando  viaggiavo in India con mio figlio ero sempre presa dalla preoccupazione e i miei occhi non potevano smettere di seguire i suoi movimenti e gesti. Dove ha messo le mani prima di passarsele sulle labbra?

Lì, invece, mi sentivo protetta e potei rilassarmi.

Sì, senza dubbio, la vacanza si presentava spensierata da ogni punto di vista: cibo, organizzazione e spostamenti. Tutto era andato bene fino a quel momento e continuò ancora meglio.

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