Da Calcata a Khajuraho - PRIMA PARTE
Una gita a Calcata, qualche mese fa, con mio figlio che non era mai stato in questo singolare paesino, nonostante si trovi a pochi chilometri da Roma, ha risvegliato in me un'antica memoria.
Infatti, fu proprio lì, a Calcata, che prese forma la mia idea di andare a esplorare l'India e spingermi fino a Khajuraho dove poi ho vissuto per diversi anni, dove mio figlio ha trascorso i suoi primi anni di vita e dove, ancora oggi, vivono molti dei miei cari amici indiani.
Ero giovane, curiosa ed entusiasta di ogni novità che riguardasse il mondo dell'Oriente, dell'India in particolare. Avevo già letto “Autobiografia di uno Yogi “: una pietra miliare che fu mio supporto durante il temuto ritorno di Saturno sul Saturno Radix.
Accadde che un paio di amici prendessero in affitti un appartamento a Calcata per “fuggire da Roma” durante il weekend.
La domenica, la loro casa era aperta a tutti coloro che desiderassero starsene un po’ lontani dai soliti luoghi di ritrovo romani e illudersi di scacciare l'idea della settimana trascorsa nella monotonia di un ufficio e di un'altrettanto monotona settimana alle porte!
Nei pomeriggi, alcuni, attorno a un tavolino, giocavano a carte, altri, tra cui me, con qualche pretesa intellettuale, seduti al tepore della fiamma del caminetto, parlavano, raccontavano le proprie esperienze, progetti e sogni.
Fu così che conobbi Giancarlo, il primo del gruppo a tentare di organizzare per sé un viaggio in India in solitaria. Era il 1981.
Passò l'estate, il gruppo si disperse tra vacanze domeniche al mare, notti di “estate romana”.
Lui parti per l'India.
Tornò con tanti racconti da snocciolare davanti al caminetto della casa di Calcata in quelle domeniche d'inverno di freddo e pioggia gelata.
India, Pondicherry, Auroville, Agra, Calcutta erano nomi ricorrenti che suonavamo come musica alle mie orecchie. Spezie, colori, templi e divinità.
Libri che illustrassero in maniera approfondita la cultura, i costumi e le tradizioni, ce ne erano ben pochi, a quel tempo, in Italia. Una sola la guida turistica disponibile in libreria.
Pertanto i racconti di chi era già stato sul posto si rivelavano un vero pozzo, unico direi, di informazioni.
Infine, tra tutte le località dell’India narrate dall'amico esploratore, emerse un nome: Khajiuraho. Da non perdere, raccomandò Giancarlo.
Non facile da raggiungere, tra Agra e Benares, un po’ fuori dalle rotte comuni, ma, proprio lì, si trovava un gruppo di importanti templi tantrici antichissimi, molto ben conservati con le loro
sculture spettacolari.
Nel mio programma di viaggio, Khajuraho era una tappa che non avrei mancato per nulla al mondo anche perché, all'epoca, non avrei dato per scontato che sarei potuta tornare in India più di una volta nella vita!!!
Fine ottobre 1982: biglietto aereo, passaporto munito di visto d'ingresso, nessun albergo prenotato. Partii con quella spensieratezza tipica dei giovani che affrontano l'ignoto senza un briciolo di esitazione.
Risuonava nelle mie orecchie l'eco di una canzone di Battiato che mi aveva accompagnata per tutta l'estate e che raccontava di dervisci danzanti, sciamani e “suono di cavigliere del Kathakali “.
Il viaggio fu complesso, articolato, si passava da un treno a un autobus per nulla confortevole, sballottati, a ogni sobbalzo, come sacchi di patate. Una volta, per un viaggio stimato di 22 ore, prenotai un “video coach”, sedili più confortevoli senza dubbio, ma dove, per tutta la notte, furono proiettati film musicali bollywoodiani a un volume così assordante ma che, oso dire, sembrava non disturbasse affatto gli altri passeggeri.
I miei occhi erano, senza sosta, spalancati sulle meraviglie di paesaggi, templi lungo le strade, abiti di smagliante colori, mercati di frutta tropicale e collane di fiori profumatissimi.
Ero proprio in un mondo difficilmente immaginabile nonostante i racconti di Calcata; dal mio scomodo posto di osservazione, la mia città, Roma, e l'Italia mi sembravano ormai un luogo lontano e sbiadito.