Mi piaceva andare al villaggio. Ci
muovevamo da Alwar, piccola città del Rajasthan dove viveva mio marito, Rama,
usando mezzi di linea.
Gli autobus erano affollati, uomini seduti persino sul tetto che ospitava chi, pur viaggiando con il sole a picco che batteva implacabile sui colorati turbanti dei contadini locali, preferiva respirare un'aria diversa da quella interna. Pagavano il biglietto prima di salire. L'autista era ben attento a rallentare mentre percorreva i tornanti per evitare che qualcuno potesse cadere dal tetto.
Il bello di quei trasporti locali, almeno allora, era che si fermavano "a richiesta" di chi volesse salire o scendere in qualunque punto del tragitto per facilitare i viaggiatori sempre numerosi.
Per me, già salire sul bus era un'impresa: il primo gradino era così alto da terra che Rama doveva issarmi. Una volta dentro si dava da fare per farmi sedere tra i posti della fila riservata alle donne, tutte rigorosamente velate. Volentieri si stringevano per farmi spazio pur di avere la possibilità di osservare da vicino una donna che "veniva da lontano, da un altro paese".
Sempre, un tam tam di domande e risposte tra le anziane e Rama, faceva scattare l'abbinamento "italiana come Sonia Gandhi" e sembrava che questo permettesse loro di collocarmi meglio nei loro archivi mentali.
In fondo se
Rajiv Gandhi, che fu barbaramente ucciso proprio in quel periodo, aveva sposato
Sonia, per quale motivo un giovane uomo rajasthano, uno dei loro, non poteva
avere sposato un'altra italiana?
E così scattavano i loro gesti di approvazione, i sorrisi. Si accertavano che i suoceri indiani avessero accettato con gioia il nostro matrimonio e che pure la famiglia italiana fosse contenta di aver mandato una figlia così lontana da casa.
La mia
famiglia non sapeva ancora, in quel momento, che mi fossi sposata!!! Questo ci
guardavamo bene dal dirglielo, sarebbe stato troppo difficile da comprendere
per loro che fanno del matrimonio e della sua celebrazione uno dei più
importanti avvenimenti della vita e, di sicuro, un evento cardine nella vita di
ogni famiglia indiana.
Controllavano
con attenzione che indossassi tutti i segni che contraddistinguono una donna
indiana sposata da una nubile e, in tal modo, mi accettavano nella grande
famiglia India dichiarando apertamente: ora sei indiana, ti auguriamo di avere
presto un figlio maschio.
Era caldo quel giugno, mentre l'autobus si inerpicava sulla strada che tagliava la montagna: il calore immagazzinato dalle pareti di roccia granitica ci veniva restituito con generosità e contribuiva a farmi entrare in uno stato di sonnolenza che si impossessava di me per tutto il resto del tragitto.
Quando
l'autobus si fermava, aprivo gli occhi e osservavo quelli che erano arrivati a
destinazione. Mi piaceva seguirli con lo sguardo mentre, carichi di pacchi, si
incamminavamo per raggiungere le loro case tra i campi dove li attendeva ombra,
profumo di pane appena cotto, acqua fresca e l'immancabile chai, tè al latte
abbondantemente zuccherato e aromatizzato con elaichi (cardamono).
Quando a nostra volta arrivavamo a destinazione, mentre percorrevamo il sentiero che ci portava alla casa, si poteva star certi che qualcuno della famiglia o delle case accanto, ci avesse già avvistati e un adolescente veniva spedito per aiutarci a trasportare le buste da cui traboccavano i profumati manghi che avevamo acquistato prima di lasciare Alwar.
La suocera
veniva ad accogliermi al cancello aspettando con pazienza che io e mio marito
ci chinassimo per sfiorarle i piedi, saluto riservato agli anziani, le sue
lunghe mani nodose toccavano il nostro capo in segno di benedizione, dicendo
"sono felice", e mi precedeva per guidarmi all'interno della casa
dove mi aspettavano le altre donne.
Donna nel
villaggio
foto scattata nel 1991 e miracolosamente sopravvissuta a tanti
traslochi.
Che belli questi racconti Patrizia! Ti leggo con molto interesse! Alla prossima puntata.
RispondiEliminaAntonia