martedì 25 novembre 2014

I tre Guna nell'Ayurveda

LE TRE QUALITA’ DELLA MENTE

La mente sattvica è la mente che possiede le qualità del distacco, dell'assenza di desiderio, della imparzialità e della resa a ciò che è.
La qualità sattvica diviene impura se inquinata dalle qualità rajasica e/o tamasica. Solo allora costituisce la causa dell'ignoranza e dell'illusione che è ragione di asservimento dell'uomo. La mente sattvica è unita a caratteri quali saggezza, gioia, pace, fratellanza, fiducia, santità, purezza e senso di unità con tutti.

La mente rajasica è la mente in attività: pianifica per poter agire. Questa mente è spesso in preda ad agitazione. Il suo atteggiamento è quello di creare incessantemente ma anche di distruggere.
La qualità rajasica genera l'illusione dell'esistenza di qualcosa che non esiste, allarga e approfondisce i contatti dei sensi con il mondo esterno, crea gli affetti e gli attaccamenti, e, per mezzo della coppia di spinte piacere-dolore (l'una volta ad ottenere e l'altra volta ad evitare) fa sì che l'individuo si immerga sempre di più nell'attività. L'attività alimenta i mali della passione, rabbia, cupidigia, presunzione, odio, orgoglio: attraverso questi mali ci si incammina, si scivola verso la qualità tamasica.

La mente tamasica ha un atteggiamento di inerzia e di buio. Vivere secondo gli istinti è vivere al buio. Il destino dell'essere umano è di essere dotato di coscienza per muoversi dal buio dell'ignoranza (tama) alla luce della conoscenza (sattva).

Il cibo costituisce una delle maggiori fonti di energia fisica e contribuisce alla formazione della linfa, materia prima attraverso la quale tutte le ghiandole producono i rispettivi ormoni.
L'Ayurveda e lo Yoga attribuiscono importanza fondamentale alla linfa e la considerano cibo per il cervello.
La scarsità della linfa rende il cervello affaticato e le sue funzioni sono limitate. 
Una dieta ricca di verdura a foglia verde è indispensabile per la produzione di linfa poiché la clorofilla è un catalizzatore che ne favorisce la formazione.

La linfa dona vitalità e vigore al corpo.

Queste caratteristiche descrivono la parola latina vegetare dalla quale è derivato il termine "vegetariano";
la dieta vegetariana si riferisce al "cibo per gli dei".


Nelle antiche scritture vediche, il corpo è chiamato annamaya kos’a, una parola Sanscrita che significa “fatto di cibo”, a sottolineare lo stretto legame fra cibo, corpo e mente. 

Il corpo è considerato infatti il primo livello della mente, quello più materiale e esterno, lo strumento con cui la mente interagisce con il mondo.

Nello Yoga il cibo è classificato in base alle tre forze cosmiche che danno origine alla creazione: SattvaRaja, e Tama rappresentate dalle divinità Brahma, Vishnu e Shiva.

Il cibo Sattvico o senziente è quello in cui prevale la forza sattvica che aiuta l’evoluzione fisica, mentale, e spirituale, e lo sviluppo completo dell’essere umano.
Il cibo Rajasico è quello in cui prevale la forza rajasica, la forza dell’attività e del cambiamento, in perenne movimento e agitazione.
E il cibo Tamasico o statico è quello in cui prevale la forza tamasica, statica e inerte.

I Cibi Sattvici sono la frutta, la maggior parte dei vegetali, tutti i semi, mandorle, pinoli,   noci e così via, i cereali e derivati, latte. Erbe aromatiche e spezie.
Questi cibi rendono il corpo armonico e puro, la mente sarà chiara e concentrata, essi contribuiscono a mantenere la salute e la pace mentale e favoriscono lo sviluppo spirituale.

Cibi Rajasici sono il caffè, il tè, la cioccolata, le bevande gassate, le spezie piccanti in grande quantità, alcuni cibi fermentati. Sono cibi che agiscono come stimolanti o creano gas e molto calore nel corpo, portano uno stato d’irrequietezza e agitazione.



I Cibi Tamasici invece sono la carne, il pesce, le uova, e i loro derivati, l’aglio, la cipolla e i funghi, le bevande alcooliche, le sigarette e il tabacco, tutti i tipi di droghe e i cibi avariati. Sono cibi portatori d’energia inerte che rendono statici sia fisicamente che mentalmente, ostacolando la concentrazione e il progresso spirituale.

mercoledì 19 novembre 2014

Terracotta indiana. Prima parte: il bicchiere del tè

La produzione della terracotta nella terra dell'India ha sempre svolto un ruolo molto importante ed è per questo che dedicherò più di un post a questo argomento.
Spero che i nascenti movimenti ecologisti che intendono salvare questa bellissima terra dalla plastica, possano avere un potente impatto per riportare in auge l'uso dei bicchieri di terracotta per le bevande che si consumano in strada.

Nella vita quotidiana di ogni indiano il tè svolge un ruolo importante.

E' per questo che si beve tè ad ogni angolo di strada, nelle stazioni dei bus, nelle stazioni ferroviarie.

Durante i miei viaggi era sempre un sollievo al mattino, al risveglio, dopo una notte trascorsa dormendo come meglio si poteva nella cuccetta di un vagone delle ferrovie indiane o seduta su un "video coach" con sedili reclinabili ma certamente scomodi da passarci sopra la notte, mentre uno schermo piazzato subito dopo la cabina del guidatore proiettava gli interminabili film bollywoodiani.

Il venditore di "chai" questo è il nome del tè in lingua indi, saliva sul vagone, si faceva largo lungo i corridoi stipatissimi di persone che non avevano trovato un posto a sedere negli scompartimenti e avevano passato la notte peggio di me.

Un grande bollitore di alluminio in una mano e un secchio pieno di bicchieri di terracotta nell'altra mano.
Con maestrìa versava il tè nel bicchiere. Tè fumante, al latte, profumato di spezie e, per me, troppo dolce, ma pazienza! Il bicchiere ci veniva sempre offerto con occhi scintillanti, con un sorriso, ringraziavo di vero cuore e facevo scivolare nelle callose mani le rupie.

Se non aveva il resto, con grandi cenni, cercava di far capire a noi stranieri che sarebbe tornati indietro alla fine della vendita con le monete mancanti e, a volte, le monete passavano di mano in mano tra i viaggiatori seduti a terra per giungere nelle mani del destinatario finale.



All'inizio degli anni novanta, questi infaticabili e pazienti venditori di tè usavano ancora i bicchieri di terracotta, igienici ed ecologici. Infatti, dopo aver sorseggiato il chai, potevano essere gettati dal finestrino e restituiti alla terra che li aveva prodotti.
Ci sforzavamo di gettarli in modo che si rompessero perché a nessuno, proprio a nessuno, potesse venire in mente di riciclarli.

La bevanda assumeva un gradevole sapore tutto suo se bevuta da questi bicchieri ora, purtroppo, sostituiti da bicchieri di plastica.
Li si poteva tenere tra le mani senza scottarsi, ogni bicchiere era stato modellato singolarmente da un esperto membro della famiglia appartenente alla casta dei lavoratori della terracotta.

Sono certa che i venditori ambulanti di tè, chai wallah, non hanno accolto con gioia l'introduzione della plastica ma si sono semplicemente adattati a ciò che è stato imposto dai voraci produttori e speculatori che hanno cercato di cancellare dalla nazione la millenaria tradizione della produzione di terracotta.



venerdì 7 novembre 2014

Amma: Mata Amritanandamayi

Durante i mesi trascorsi a peregrinare in lungo e largo nel continente indiano, decisi che, certamente, valeva la pena recarsi a conoscere Amma, a quei tempi, 1991, si parlava ancora poco di lei.


                                                                 

                                                  Era  giovane così quando la conobbi.

Mata Amritanandamayi è diventata famosa nel mondo per essere la Maestra (Guru) dell'abbraccio.

In questo ultimo decennio, quando visita l'Europa, si formano lunghe code di persone (fino a tremila anche quattromila) che desiderano essere abbracciate da Amma ... ma,  a quel tempo, ricevetti il suo abbraccio ogni sera, nel suo piccolo ashram, ancora in costruzione, su un isolotto del Kerala.

Arrivai in Kerala viaggiando su uno qualunque degli scomodi e affollati treni indiani, provenivo da Mysore.

Prima tappa, Cochin, poi in bus fino a Kayankulam, scesi dal bus e, come sempre succedeva a noi occidentali, venii subito avvistata da solerti procacciatori di posti su vecchie jeep dell'esercito, dove i locali viaggiano appesi a grappoli un po' ovunque.

Preoccupata, prima di salire, avevo lanciato uno sguardo ai copertoni delle ruote: completamente lisci. Ma la jeep si muoveva lentamente attraverso stradine che si aprivano un varco tra palme e case palafitta. 

Ogni tanto, qualcuno scendeva, altri salivano: 12 chilometri percorsi in un'ora circa per arrivare a Vallickavu, spiaggia della laguna dove una barchetta incerta traghettò me e il mio zaino fino all'isolotto dove l'ashram, sebbene in costruzione, poteva già ospitare una cinquantina di pellegrini.

Seppi subito che Amma non c'era ma che sarebbe arrivata da lì a due giorni.
Bene, pensai, il tempo di ambientarmi e capire che aria tira.
Ero incantata dalla semplicità del luogo. 
Dormivamo in camerata e questo mi spinse presto a fare l'esperienza di andarmene a passare la notte sul terrazzo, sotto una luna piena da capogiro che dominava su un paesaggio silenzioso. 
Tutto era così immobile. 
Si percepiva appena il rumore del mare che lambiva la piccola spiaggia sottostante. 
Dalla terrazza, all'alba,  si poteva sbirciare nell'ala posta al piano terra, dove abitavano quelli che io chiamavo "i bramini di Amma": giovani uomini, tutti piuttosto attraenti (!), che avevano preso, chissà per quale motivo, la decisione di dedicare la loro vita al ritiro e alla preghiera.

Indossavano i bianchi, tradizionali dhoti, al posto dei pantaloni e grandi sciarpe di leggero cotone per coprire spalle e torace, lasciavano scoperte braccia di  lucida pelle scura tipica degli indiani del  
Kerala.

L'ashram era modesto ma pulito, il piccolo giardino, curato.

Si poteva mangiare alla mensa per gli occidentali (senza curry) ma c'era anche la possibilità di gustare ottimo cibo indiano, molto piccante, che ci veniva servito, a volontà, su foglie di banano mentre sedevamo a terra, su stuoie di cocco. 
Scelsi la mensa indiana. Quando si viaggia per molti mesi, e si passa da un treno a un bus, spesso si è costretti a mangiare frutta, o "street food" non sempre della migliore qualità. 

Da Amma, il cibo era cucinato e servito da bramini ed era squisito. 
Questi uomini dallo sguardo dolce e fermo e un gran sorriso sulle labbra, passavano, scalzi, davanti a ogni commensale con secchi di acciaio che emanavano profumi eccitanti per le papille gustative.

Nell'ashram si doveva fare un lavoro a scelta, il "seva", ovvero, servizio per la comunità.
Me ne andai in tipografia a incollar fascette di indirizzi sui notiziari dell'ashram che venivano spediti ad abbonati sparsi qua e là nei vari stati indiani.

Fu proprio uscendo dalla tipografia che il terzo giorno mi imbattei in Amma, sorridente, vestita di bianco:  mi venne incontro, mi abbracciò con molta semplicità dandomi un caloroso benvenuto.
Era circondata da un'aura di luce, questo lo ricordo bene, e non lo dimenticherò. 

Dopo il suo arrivo, ogni sera ci riunimmo nel tempio con lei che cantava i bhajans quasi come se fosse in estasi. I canti erano accompagnati da alcuni musicisti che, a quanto pare, la seguivano nei suoi spostamenti. 
Trascorrevamo molto tempo con lei, non saprei dire con esattezza ma, credo, almeno tre ore, e lei abbracciava tutti con la  stessa, immutabile espressione di gioia nel viso.
Mi piaceva Amma perché si rendeva "raggiungibile", era alla nostra portata. 
Non si avvertiva da parte di lei il minimo senso di distanza, di giudizio o superiorità.
Era proprio vero: Amma era quello che faceva "l'abbraccio".
Quando lei  decise di ripartire per visitare qualche altra città del sud, lasciai l'ashram e proseguii il mio pellegrinaggio.