domenica 11 ottobre 2015

Omaggio al Nepal terra degli dei, di montagne, di Dakini

Tornammo a Kathmandù ancora un paio di giorni, forse tre prima del rientro in India. Trascorremmo molto tempo nella grande libreria di Thamel "The pilgrims". Cercai subito mazzi di tarocchi, libri di tarocchi: ce ne erano una buona varietà ma non quelli ... eppure avevo sempre di più l'idea che quel mazzo di tarocchi lo avessi già visto!

Aditya scelse libri per sé, era freddo a Kathmandù in quei giorni, il sole tramontava presto e così, dopo le visite in libreria, andavamo a far quattro chiacchiere nel negozio dei nuovi amici indiani, pochi metri più in là.

Aditya era contento della loro compagnia. I ragazzi parlavano un buon italiano e la conversazione era uno spasso per lui che passava dall' hindi all'italiano con estrema facilità, usava l'una o l'altra lingua a seconda di come le espressioni erano più efficaci e colorite. La sera si cenava insieme al ristorante "The third eye" o alla pizzeria "Fire and ice".

Sulla strada del ritorno uno dei tre giovani ragazzi indiani si faceva carico di portare Aditya in braccio fino in albergo dove qualche inserviente si caricava del suo peso fino a depositarlo sul letto ormai già addormentato. Quello che ho trovato nei miei viaggi da sola con figlio al seguito, sia in India che in Nepal, e' sempre stato il massimo dell' aiuto, assistenza e cura verso il bambino, trattato con affetto e tenerezza sinceri.

Mai ho dovuto chiedere aiuto, perché qualcuno arrivava di sua volonta' pronto a prevenire qualunque richiesta. Questo fa comprendere quanta naturale attenzione ci sia verso i bambini. Se dovessi consigliare a qualche mamma che viaggia sola con figli direi, senza esitazione di andare in India o in Nepal.
Arrivò il giorno del rientro in India, passammo a salutare gli amici indiani di Jaipur e ce ne andammo.

Io ero triste, la vacanza era stata cosi intensa e già pensavo al mio prossimo viaggio nella terra degli dei da lì a qualche settimana. Atterrammo a Varanasi, sosta in hotel per la notte. Il nostro autista, Pappù, arrivò da Khajuraho con dei turisti a tarda sera, pronto a ripartire all'indomani.

Trascorsero i giorni affaccendati della settimana della danza classica indiana ai templi di Khajuraho, spettacolo da non perdere per il fascino dei movimenti dei danzatori e danzatrici, dei musicisti e dei templi che fanno da sfondo. Una scenografia maestosa e più appropriata non si potrebbe trovare.
Dopo il Maha Shivaratri (festa dedicata al Dio Shiva), fremevo per l'impazienza di tornare a Kathmandù. Inoltre, dal momento in cui era nato mio figlio non avevo mai più trascorso un giorno senza di lui, perciò questa sarebbe stata anche l'opportunità di godere di un po' di solitudine.
In pochi giorni eravamo già a primavera avanzata: una sacca da viaggio con pochi indumenti era sufficiente questa volta. Passai da Varanasi, come al solito e poi, via, diretta al piccolo aeroporto di Kathmandù.

Scesi al solito albergo, sorseggiai una tazza di tè e subito dal chiromante.

Mi accolse non senza meraviglia, forse davvero non aveva creduto che sarei tornata. Prese l'impronta delle mie mani dopo avermele ben bene inchiostrate e mi dette appuntamento per due giorni dopo. Passai subito a salutare gli amici di Jaipur: c'erano soltanto Rajnesh e Devender.

Tra una chiacchiera e l'altra selezionai monili d'argento per il mio negozietto di Khajuraho. Concordammo un prezzo molto buono, quasi d'ingrosso.

Ormai non avrei avuto tempo di andare fino a Jaipur per i soliti acquisti semestrali, in pochi settimane sarei partita per l'Italia. Chiesi loro di tenere tutto da parte: avrei ritirato il giorno prima della partenza.

Il chiromante, cerimonioso nei suoi gesti, mi accolse per la sua spiegazione che incise su un nastro. Lo studio della mia mano era completo, esaustivo.

Mi parlò della mia vita, del passato, del momento attuale, del futuro.
Fece un unico errore per quanto riguardava il futuro: vide la mia uscita definitiva dall'India all'età di 53 anni mentre invece me ne andai a 44.

Ma lo sapevo bene che stava sbagliando: il tempo era proprio stretto. Me lo sentivo a pelle. Per il resto, posso dire che il lavoro che faccio oggi è proprio quello che aveva previsto.
Il giorno prima della mia partenza da Kathmandù andai a ritirare l'argento e pagare.

Ma ... non potevano accettare la mia carta di credito per il pagamento. Solo cash! Una corsa in moto fino alla banca: stava chiudendo i cancelli! Tornammo al negozio. Che fare? Per loro sfumava un incasso interessante. Bisognava trovare una soluzione. Era venerdì e, fino a lunedì, niente cash, ma il mio aereo era già prenotato per il sabato mattina.

Rajnesh che aveva funzioni decisionali mi disse: prendi tutto lo stesso, quando passi da Jaipur ci pagherai. Obiettai che ci sarebbero voluti diversi mesi prima che passassi di lì, si fidava veramente di me così tanto?
Sì, mi disse.

A quel punto cominciò a scendere su di noi "la polverina magica" di cui si parla nella tecnica dei 101 desideri.

Preparò una fattura con indirizzo del negozio di "suo cugino" a Jaipur e mi consegnò il tutto.
Mesi dopo, arrivai a Jaipur, affittai un risciò che mi lasciò davanti all'Hawa Mahal, il famoso Palazzo dei venti, della città rosa. Fattura alla mano, stavo cercando il negozio quando mi imbattei in ... Devender.

Sì proprio lui! Uno dei ragazzi di Kathmandu. Mi fece strada su per le impervie scalette che conducevano al negozio.
Prima di pagare ... una tazza di tè, naturalmente. Mentre sorseggiavo mi guardavo intorno e mi convincevo sempre di più che quel negozio lo avevo già visto. Così chiesi se, qualche anno prima lì non avesse lavorato un certo Shiva. Ma certo, mi fu detto questo è il negozio di Shiva, lo conosci?  No, non lo conoscevo perché la volta che ero andata lì, anni prima, Shiva non c'era ma lui era molto amico di Pardeep il mio amico indiano che vive a vicino Roma e di cui avevo perduto le tracce. Lo chiamarono al telefono per farmi parlare con lui. Quando seppe chi io fossi mi salutò con voce cordiale e gioiosa e ... meraviglia, mi comunicò che frequentava Pardeep quando si recava a Roma per affari e, in quel momento, il cerchio si chiuse. Non sto a farla lunga ma oggi Pardeep ha un ristorante indiano a Trastevere il quartiere dove io vivo.

Il ristorante si chiama Jaipur e ci potete scommettere che c'è il mio zampino.

Aditya e il figlio di Pardeep, Sahil sono amici, persino hanno frequentato la stessa facoltà universitaria.

Grazie Nepal! Terra di magie. Un piccolo regno tra i monti più alti del mondo, oggi stravolti da un terremoto che mi ha toccata nel profondo del mio cuore e delle mie radici. Il mio spirito di ricerca e di avventura mi riporterà in quella terra prima o poi. Con tutto il mio amore. Namaste'

venerdì 9 ottobre 2015

OMAGGIO AL NEPAL, terra degli Dei, di montagne, di Dakini

Riprendo la narrazione dopo una lunga pausa perché ho preparato il mio viaggio in India 2015. Ora sono pronta a procedere con il racconto.

Eravamo appena arrivati alla pensioncina di Pokhara,  gestita da una gentile famiglia nepalese.

Aditya si divertiva con i suoi nuovi amichetti, giocava come se si fossero conosciuti da sempre e io mi godevo la pace e il silenzio di quel luogo.
Mentre sostavo sul pianerottolo del piano della nostra stanza e guardavo con gioia i bambini giocare e parlare tra loro, Aditya in hindi e gli altri in nepali, si capivano benissimo, vedo arrancare, ansimante, per le scale che conducevano al piano, una donna. Americana, come seppi subito dopo. Lei mi saluta con grande enfasi e mi porge la mano, si presenta: Sarah. 

Ricambio e lei, con straordinario senso di familiarità mi chiede subito da dove vengo, che programmi ho, quanto a lungo intendo fermarmi. 

Non appena le dico che sto viaggiando con mio figlio di quattro anni e glielo indico, intento a giocare, i suoi occhi si illuminano e mi dice che, due stanze più in là alloggia una sua amica, di nazionalità canadese, con figlia, stessa età del mio. Senza esitare mi mette al corrente di un bel problema in cui si sono trovate immerse e che non riescono a risolvere. Lei sente che, in qualche modo, io potrei essere di aiuto.
In breve, questa era la situazione.

La figlia dell`amica, è una bimba nepalese adottata a pochi mesi dalla nascita. Ogni anno, la mamma adottiva, da Vancouver riportava la bimba in Nepal per farle rivedere i suoi veri genitori e i fratelli nonché la terra  e il villaggio da cui proveniva. Intendeva in questo modo, aiutarla a mantenere il contatto con le sue radici.

Ma questa volta era accaduto "qualcosa" di insolito al villaggio. 

Nessuno aveva capito cosa, ma la bimba, Dhan Kumari il suo nome, aveva iniziato a urlare come un`ossessa non appena entrata nella modesta casa di famiglia e la crisi era stata così forte che la mamma adottiva aveva dovuto portarla via temendo il peggio. Nessuno era riuscito a placarla.


Dal villaggio a Kathmandu da Kathmandu a Pokhara, in due giorni Dhan Kumari non aveva più né parlato né mangiato e, a forza, aveva ingoiato qualche goccia di acqua!

La mamma e la sua amica non sapevano più cosa fare. Consultare un medico? Impossibile. Ogni volta che un viso nepalese si accostava alla bimbetta erano crisi, pianti e urla.
A quel punto, chissà per quale spinta intuitiva, mi chiesero, secondo me, cosa si potesse fare.
Volli vedere la bimba che dormiva esausta. La mamma era, a dir poco, sfatta dalla preoccupazione.

Mi occupavo da anni di cura delle anime, usavo svariate tecniche, e da un anno mi interessavo ai rimedi floreali di Bach nei quali riponevo tutta la mia fiducia. 

Usandoli avevo ottenuto risultati soddisfacenti e viaggiavo sempre con due bottigliette di Rescue Remedy nella borsa. Era quella l'unica cosa che potevo offrire. L'obiezione fu: "ma lei tiene le labbra serrate". "Non importa- dissi io - mentre dorme lasciamo cadere le gocce sulle labbra e una goccia sul punto del terzo occhio".
Lo facemmo insieme con religioso silenzio e cautela. Poi lasciai la bottiglietta a lei suggerendole di fare varie applicazioni durante la notte. 

Sarah, Aditya, e io ce ne andammo a cena e portammo indietro cibo per la mamma prigioniera nella stanza. 
Ci augurammo una notte portatrice di guarigione, raccomandai, per qualunque evenienza di svegliarmi senza alcuna remora. La notte passò. Al mattino presto, era l'alba, eravamo sul ballatoio a confabulare.

Ormai avevo preso in mano le redini della situazione. 

Il piano era il seguente. 


Al risveglio di Dhan Kumari, con un atteggiamento noncurante sarei entrata nella stanza insieme a mio figlio, Aditya, e due ciotole di porridge e latte. 


Aditya si sarebbe messo a mangiare e la seconda ciotola sarebbe stata posta sul tavolo, noi donne, ci saremmo posizionate fuori dalla porta, mantenendola aperta a parlare dei programmi della giornata.

Aditya era stato informato che la bambina si rifiutava di mangiare, e sapeva che doveva fare finta di niente, salutarla, presentarsi, chiedere a lei il suo nome. E non si sarebbe dovuto sentire offeso se lei non avesse risposto.
Così facemmo e i bambini parlarono subito tra loro, e mangiarono la loro colazione. Noi non stavamo nei panni dalla soddisfazione. La mamma di Dhan Kumari, Nicole, a stento trattene, lacrime di gioia.

Ci preparammo a una giornata di passeggiate, gita in barca sul lago di Pokhara, degustazione di manicaretti nei ristoranti locali. Tutto andò a meraviglia. La piccola era guarita. 

Al pomeriggio i bambini si lanciarono in uno shopping sfrenato nel locale supermarket, comprando una felpa a testa, biscotti e l'immancabile cioccolato svizzero reperibile già da quel tempo in Nepal. Trascorremmo insieme giornate serene scambiandoci tante confidenze, suggerimenti. 

Fu proprio la mamma di Dhan Kumari a volermi prestare per qualche giorno un interessante mazzo di tarocchi dalla forma circolare con raffigurazioni simboliche che attrassero subito la mia attenzione. Sono un' appassionata di tarocchi e ne possedevo una piccola collezione. 

Cito questo particolare perché questo mazzo di carte è stato il protagonista responsabile per una nuova importante amicizia dal lato opposto del mondo: New York e tanti viaggi fatti in quella nuova direzione negli anni successivi.

Il caso e la nostra apertura al nuovo possono determinare interessanti svolte del destino. E Dio solo sa quanto io fossi aperta a percorrere nuove strade in quel momento della mia vita. Venne infine il momento di separarci. Con dispiacere, in una mattina grigia, ci avviammo al piccolo aeroporto.

Una cosa però voglio dirla: se oggi sono riuscita a decidere di scrivere queste memorie della mia vita negli anni `90, è merito di Sarah. Lei, una scrittrice di professione, mi suggerì con insistenza di narrare la mia vita in India.

Se oggi ho un caro amico che vive a Manhattan e che è uno dei punti di riferimento della mia vita, è merito di Nicole e di Dhan Kumari e di quel viaggio in Nepal, terra degli dei!



lunedì 20 luglio 2015

Omaggio al Nepal – Terra degli Dei, di montagne, terra di Dakini - 

Terza parte


Era proprio il viaggio che desideravo fare, che avevo bisogno di fare

La spinta alla consultazione del chiromante era quella che mi aveva “stanata” dalla quiete della piccola quanto meravigliosa #Khajuraho dove la vita scorreva lenta e sonnolenta, con un panorama sempre uguale sulle Dantla Hills e i fantastici templi tantrici, meravigliosi manufatti di sconosciuti artigiani che hanno lasciato un'ineguagliabile eredità artistica  all’umanità intera.


Ritrovare le stradine di Thamel, con più alberghi e numerosi ristoranti per tutti i gusti, ma con la stessa familiarità di tanti anni prima.

Divenimmo clienti abituali del ristorante “The third eye”, lo staff era molto simpatico, tra le salette dove mangiare c’era la possibilità di scegliere quella dove ci si poteva sedere a terra, su comodi cuscini ed era  vicinissimo al nostro albergo. 

Nel mio ultimo viaggio in Nepal, nel 2010, un cameriere di questo ristorante ricordava ancora il nome di mio figlio, dopo ben quattordici anni.

Il chiromante aveva il suo studio a due passi da lì. Il giorno successivo al mio arrivo mi apprestai a salire le scale fino al primo piano, senza esitazioni, bussai e attesi con curiosità: avrebbe aperto lui personalmente o un assistente? 
Che aspetto avrebbe avuto? Sarebbe stato accogliente?

La porta si aprì ed era proprio lui a ricevermi, nessun assistente, nessun altro nello studio. Con cordialità e calma, davanti a una tazza di tè, mi spiegò il suo modo di lavorare: avrebbe preso l’impronta delle palme delle mie mani su di un foglio, spalmandole ben bene d’inchiostro, e, dopo due giorni, sarebbe stato pronto per spiegarmi tutto quanto si poteva dedurre dallo studio di tutte quelle linee.

Ma, come in tutte le imprese degne di tal nome, c’era un ostacolo: Aditya  non avrebbe dovuto essere presente. 

Compresi subito che non c’era possibilità di venire fuori da questo problema.
Non potevo lasciare il bambino, per due ore, con degli sconosciuti, fossero pure stati dello staff dell’albergo.
Questo non mi fermò nelle mie intenzioni, soltanto ritardò la data della consultazione. 

Valutai che, al termine della vacanza, superato il momento di picco di presenze turistiche a Khajuraho che cade nella settimana della danza classica indiana, nel periodo del MahaShivaratri, sarei potuta tornare per un brevissimo viaggio. Ecco perché nella vita romana di tutti i giorni io, tra me e me, sorrido quando qualcuno mi dice che il quartiere dove insegno yoga "è lontano da casa mia" "mi piacerebbe ma  ...". 

Il mio spirito di avventura fu persino stimolato dalla possibilità di un altro viaggetto di una quindicina di ore, questa volta tutta sola. SE VUOI, PUOI!
Questo è uno dei miei motti.

Io non lo sapevo in quel momento e neppure tutte le persone coinvolte nella vicenda lo poteva immaginare ma, il secondo viaggio sarebbe diventato il punto di innesto di un destino che “doveva necessariamente compiersi”.

Il chiromante, ora che l’avevo visto, mi convinceva, e decisi che era essenziale ricevere la sua consulenza.
Intanto, Aditya e io potevamo rilassarci e goderci la vacanza.
Mentre passeggiavamo, subito dopo colazione, per le stradine colorate di merci, fummo richiamati da un giovane commerciante che era in piedi sulla porta del suo negozio. Parlava italiano alla perfezione ma era indiano. 

Vendeva monili di pietre e argento: la mia passione. 

In quel tempo anch’io svolgevo, in piccolo, quel commercio nel negozietto che si trovava sotto al mio ristorante.
Il giovane uomo, indiano, mi chiese con molta cortesia di entrare a vedere il suo negozio, mi riservai di passare nel pomeriggio, più tardi.

E fu proprio lì, nel suo negozio, che ebbe inizio il primo evento speciale di quel viaggio ma, che fosse speciale, lo compresi molti mesi dopo …

Portai Aditya a vedere i templi più vicini, la Durbar Square, lui mi seguiva incuriosito. Rispettavo i suoi tempi, c’era tanto da esplorare e camminare.

Prenotai un volo per Pokhara, dove c’è un fantastico lago, per stare più a contatto con la natura, in seguito  saremmo andati nella giungla per vedere elefanti, rinoceronti e coccodrilli.
Per mio figlio un vero e proprio programma che valeva ben più di una gita a Disneyland.

Già il volo fu una vera avventura, sorvolammo alcune vette innevate, il piccolo velivolo a venti posti costeggiava pareti coperte di ghiaccio. Un’emozione anche per me: quando sei su un piccolo aereo ci si rende conto di quanto siamo piccoli rispetto alle montagne e quanto in balia dei vuoti d’aria.
Soltanto durante quel volo mi resi conto che Aditya non aveva mai visto la neve ma neppure ne sospettava l’esistenza, non ce ne era stata occasione e la parola neve per lui era vuota di qualunque significato.
Credeva che le montagne fossero di gesso. Parlando un po’ italiano e un po’ hindi, mi disse: mamma “batthì” che, appunto, significa gesso.

Atterrati a Pokhara, con il corpo che ancora tutto vibrava, ci sistemammo in una pensioncina sulla strada che costeggia il lago. Poche stanze, molto pulita, pannelli solari installati sul tetto per l’acqua calda.

Il proprietario ci accolse con tanta gioia e quel sorriso tipico della gente nepalese. Namasté!

Aveva due o tre figli piccoli. Aditya ebbe subito qualcuno con cui giocare e intendersi a meraviglia poiché la lingua nepalese è molto simile all’hindi.

I bambini iniziarono a conversare con la massima tranquillità come si fossero conosciuti da mesi.
Nessun capriccio, nessun malinteso ma solo la gioia di stare insieme, quella che dovrebbe appartenere a qualunque essere umano che ne incontra una altro: siamo tutti su questa terra per conoscerci, riconoscerci e sostenerci. 

Il dono.

Occhi a mandorla, pelle chiara, pelle scura: tutti esseri umani. 

Questa è la magia che si accende tra bambini che hanno vissuto una vita molto semplice con solo un paio di giocattoli a disposizione.

Da lì, con la loro grande fantasia, fanno partire decine di situazioni di gioco perché la loro mente è creativa, la natura del #popolo nepalese è dolce, pacata e pacifica, e i bambini nepalesi sono portatori di una grande eredità: uguaglianza e armonia. 

domenica 21 giugno 2015

OMAGGIO AL NEPAL, TERRA DEGLI DEI, DI MONTAGNE, DI DAKINI - PARTE SECONDA




George aveva avuto intenzione di visitare Khajuraho da tanto tempo ma, a sua detta, tutte le volte che aveva tentato, c’era sempre stata qualche difficoltà nel prenotare il volo da New Delhi e il viaggio via ferrovia da New Delhi fino a Jhansi e via strada, su autobus locali, da Jhansi a Khajuraho, era piuttosto faticoso e lui, che era in giro da ben due anni in oriente, forse era un po’ stanco di farsi sballottare dagli autobus indiani.

Lo si poteva credere con facilità. Anche io, che ero e sono avventurosa e sempre pronta ad andare “da qualche altra parte”, dopo diversi anni di India, cominciavo a dare segni di stanchezza negli spostamenti di tante ore, soprattutto se ero costretta a viaggiare su autobus locali, piuttosto affollati e senza aria condizionata.

Insomma, diciamo che, in quel momento i pianeti erano pronti e l’Universo trovò il modo per facilitare la visita di George Carter perché aveva una missione da compiere.

Posso, senza esitazione, affermare che, quando lessi il suo nome su un fax che ne annunciava l’arrivo alla stazione ferroviaria di Jhansi, e bisognava mandare il nostro taxi a prelevarlo, io compresi, grazie a quelle antenne di cui tutti siamo forniti e che a me, ogni tanto, funzionano molto bene, che quella persona avrebbe avuto una funzione importante nella mia vita.

George arrivò a Khajuraho, prese una stanza in un hotel non lontano dal ristorante e venne subito a mangiare qualcosa. 
Cordiale, un po’ chiacchierone, cercò subito di entrare in confidenza con me per assicurarsi che la proprietaria avrebbe avuto qualche cura in più per i suoi pasti: intendeva fermarsi per una settimana almeno ed era un vero buongustaio.

Ero molto impegnata nel lavoro e, pur accertandomi che fosse servito al meglio, non gli prestavo un’attenzione particolare anche se avevo avuto quella “percezione” iniziale.

Mi occupavo di lui come di tutti gli altri ospiti, ovvero pretendevo che i ragazzi della cucina e della sala dessero il massimo dell’efficienza, simpatia  e familiarità, così come, io per prima, facevo. 

Volevo che tutti si sentissero benvenuti e “a casa" seppur lontani dalla loro terra, anzi, proprio per questo.

Sono sempre molto sicura che le cose che “devono accadere” accadranno e nulla e nessuno può fermare o deviare il corso degli eventi: d’altro canto non sarei un’astrologa se non lo credessi.

Dopo un paio di giorni di frequentazione del ristorante, una mattina, George, che aveva gustato una buona colazione, si trattenne a leggere, almeno così cercava di far credere.

Invece era in attesa che io fossi disponibile a fare due chiacchiere con lui.

Quando mi vide libera mi comunicò che voleva dirmi qualcosa e mi invitò a sedermi al suo tavolo. Questo accadeva spesso con i clienti del ristorante che preferivano avere informazioni su usi e costumi locali da chi, come me, viveva in India da anni. Ma non era questo lo scopo di George!

Mi parlò con serietà e senza mezzi termini. Andò dritto al punto e mi disse alcune cose molto veritiere che ritraevano il momento che stavo vivendo; mi parlò di mio figlio che lui considerava un'anima dotata di eccezionale sensibilità e intelligenza.

Io ero interessata e incuriosita da quanto mi diceva. 

Profondo osservatore e dotato di lunghe antenne ricettive, inizialmente, dubitai, dei suggerimenti che mi diede per affrontare quel momento della mia esistenza non tanto perché arrivavano da un estraneo, ma perché  io ci pensavo già da un po’ a mettere in atto quelle stesse soluzioni che mi arrivavano da lui ma ero piena di dubbi e di timori. 
Si sarebbe trattato di un cambiamento a tutto tondo della mia vita e di quella di mio figlio.

Punti interrogativi si stagliavano come giganti nella mia mente.

Lui mi disse chiaro e tondo che non dovevo perdere troppo tempo: basta tergiversare.
Io non sapevo proprio come attraversare il guado che la vita mi poneva davanti in quel momento e mi spaventava il "salto quantico".

George mi suggerì di andare a Kathmandù a consultare un famoso chiromante dal quale lui stesso aveva ricevuto avvisi e consigli utili.
Ne elogiò l’accuratezza nello studio delle linee della mano e nelle previsioni. 
Si disse certo che anche lui avrebbe visto quel cambiamento come inevitabile per me.

Per questo consulto avrei dovuto affrontare un giorno di viaggio in macchina, una notte di sosta a Varanasi e il volo per Kathmandù con i relativi collegamenti per e dagli aeroporti. Insomma, una piccola avventura.
Però, la viaggiatrice indomita che è in me, cominciava a “vederlo nella mente” questo viaggio: almeno, dopo tanto tempo, si profilava l’opportunità di una vacanza che avrebbe spezzato la quotidianità!

George mi spinse a partire con Aditya perché era giusto che prendessimo una vera pausa tutta per noi e mi assicurò che il bambino sarebbe stato felicissimo, che il Nepal era cambiato molto e più evoluto nell'accoglienza turistica. 
Mi aveva già dato prova di essere in grado di “vedere oltre il visibile” in quei giorni. Iniziai a sentirmi sollevata all’idea di questo viaggio, acquistavo sicurezza in me stessa, sempre di più.

Inoltre, per come funziona la vita in India, nessuno trova strano o esagerato che si possa provare l'interesse a recarsi anche molto lontano per consultare un bravo chiromante o per andare da un Guru, o in un luogo santo. 

Anzi, il viaggio, per motivi di questo genere è considerato da tutti una grande fortuna spirituale per l'anima che decide di compierlo.

Programmai anche delle escursioni  da fare con il bambino perché avevo deciso che ci si doveva proprio divertire, saremmo andati nella giungla, avemmo visto rinoceronti e coccodrilli, avremmo visto laghi, monti e neve. Conoscevo già bene il Nepal per cui sentivo che sarebbe stato semplice muovermi nella terra degli dei. 

E così fu.

Partimmo un mattino da Khajuraho con il nostro autista Pappù, instancabile guidatore, alla volta di Varanasi (Benares) dove avremmo preso l'aereo per il Nepal. Il percorso non era tra i più difficili, lui era abituato a quel tragitto. 
Potevo fidarmi della sua tenuta alla guida.
Durante le ore di viaggio lui masticava “pan” (foglia di betel imbottita di varie spezie e pezzetti di noce di betel) e, di tanto in tanto, una sosta per bere una tazza di “chai” (tè aromatizzato alle spezie e arricchito dal latte).

Non ero un’appassionata del "chai" venduto nei chioschi per la strada, perché, spesso, la bevanda era troppo dolce ma le pause per sgranchire le gambe erano sempre ben accolte e, inoltre, Pappù si faceva in quattro per far capire a chi lo preparava che la signora italiana che lui stava accompagnando, preferiva avere pochissimo zucchero.

Queste soste costituivano per Aditya un momento in cui poteva scorrazzare e giocare con i figli dei proprietari del chioschi, ce n'era sempre qualcuno, di questo si poteva star certi. Per me un’opportunità per scambiare due parole con persone semplici e curiose. Mio figlio parlava hindi perfettamente e loro volevano sapere come e perché. 
Rispondevo volentieri alle loro domande, si parlava del più e del meno, certo, ma quello che non passa dalle parole, passa attraverso sguardi che mai si dimenticano. 
Non c’erano mai barriere negli scambi di quegli sguardi veri, di gente che non teme di mostrare la propria anima e questo, in India, accade più di frequente che altrove. 

Non è intenzionale, è solo naturale!

In macchina si ascoltavano canzoni bollywoodiane.
Ricordo che Aditya adorava una canzone in voga in quel momento e voleva sempre quella cassetta “Pardesi” e tutti e tre, cantavamo felici “Pardesi, pardesi, giana nahì …”. Quando l’ho ritrovata su Youtube, che emozione!

Pappù era entusiasta che noi amassimo la sua musica, quando viaggiava con i turisti, perché questo era il suo lavoro, gli toccava, spesso, spegnere lo stereo.

A Varanasi ci fermammo la notte a ristorarci al Surya Hotel che mi conosceva di fama, anzi, per la verità conosceva il nome del mio ristorante; al mattino dopo passeggiata sui ghat, ho ancora delle foto di Aditya sulla spiaggia del Gange nella zona dove si ammassano gli instancabili e umili lavandai .

Mangiammo qualcosa sul posto, guardando il fiume. Il piccolo ristorante aveva, di buono, soltanto la spettacolare vista. Il cibo non era neppure vagamente gustoso, le raccomandazioni che mi erano state fatte da alcuni viaggiatori non erano risultate veritiere e ci consolammo con qualche fetta di pane tostato.

La temperatura era mite, il cielo sereno, il Gange maestoso e lento. 

Nel primo pomeriggio partimmo per il Nepal, eccitatissimi.
In breve atterrammo a Kathamdù: eravamo a casa! La felicità che leggevo negli occhi di mio figlio mi ripagava già in pieno della decisione presa.
Benedetto George!

Le montagne che circondano la valle ci sorridevano, il taxi ci portò in città prima che il freddo della sera, eravamo all'inizio di febbraio, ci entrasse nelle ossa.

Naturalmente alloggiammo alla Kathmandù Guest House, a Thamel, una delle più frequentate dove si poteva stare molto tranquilli per l’igiene e la pulizia impeccabile delle stanze.
Quando  viaggiavo in India con mio figlio ero sempre presa dalla preoccupazione e i miei occhi non potevano smettere di seguire i suoi movimenti e gesti. Dove ha messo le mani prima di passarsele sulle labbra?

Lì, invece, mi sentivo protetta e potei rilassarmi.

Sì, senza dubbio, la vacanza si presentava spensierata da ogni punto di vista: cibo, organizzazione e spostamenti. Tutto era andato bene fino a quel momento e continuò ancora meglio.

mercoledì 3 giugno 2015

OMAGGIO AL NEPAL, TERRA DEGLI DEI, DI MONTAGNE, DI DAKINI

Ci sono luoghi sulla terra che possono, per alcune persone che li visitano, attivare, aprire, manifestare un nuovo percorso di vita. 
A me è successo in Nepal!
Questo terremoto che ha distrutto vite umane, famiglie nepalesi e non, abitazioni e fantastiche costruzioni di grande valore sacro e storico, mi ha costretta, a connettermi più volte al giorno, per settimane, alle vicende del popolo nepalese e del popolo dei viaggiatori dell'Himalaya.
E così, pian piano, sono risaliti alla memoria e alla coscienza ricordi e doni che ho ricevuto da questa terra meravigliosa.
Ho visitato il Nepal nel 1985, per la prima volta. Era ancora un territorio vergine. Pochi turisti. I nepalesi gentili, curiosi ma, al tempo stesso, per nulla invadenti.
Era un tempo, quello, in cui, chi viaggiava con zaino in spalla come me, alloggiava in pensioncine o piccoli alberghi a conduzione più che familiare.
Si poteva disporre veramente di pochi comforts.
Persino bere una tazza di tè al mattino presto, risultava difficile e bisognava attendere che il primo venditore ambulante, arrivasse a Thamel e allestisse il suo fornello sul marciapiede, tazze sistemate all'interno di un secchio, per poter sorseggiare, dopo poco, il "chai" fumante e troppo dolce, ma tanto agognato perché la semplice cena della sera prima aveva già cessato, da qualche ora, la sua funzione di sostegno.
Noi pochi turisti eravamo soliti sedere a terra, aspettando il nostro turno mentre intorno a noi la strada si animava. Estraevamo dalle borse qualche biscotto acquistato il giorno precedente perché, alle sette del mattino, nessun negozio a Kathmandu aveva fretta di aprire i battenti.
Insomma, se si voleva sopravvivere, bisognava sapersi organizzare in Nepal, trenta anni fa.
La città e la valle di Kathmandu, i templi e gli stupa ci sbalordivano per la loro bellezza. Ogni giorno intraprendevamo escursioni che ci portavano a contatto con uno stile di vita semplice, modesto che si svolgeva, però, accanto a costruzioni sbalorditive, quasi fiabesche.
Il regista italiano Bernardo Bertolucci ci ha mostrato la magnificenza di questi luoghi nel film “Il piccolo Buddha”.
E fu per questo, e per le montagne, e per la gentilezza innata del popolo nepalese che tornai e tornai più volte negli anni che seguirono, il magnete sotterraneo installato in Nepal, continuava ad attirarmi.
Vidi la città di Kathmandu trasformarsi: negozi, ristoranti, alberghi per tutti i gusti e per tutte le tasche, ma, di fondo, il popolo nepalese con l'umiltà e il rispetto di sempre verso i viaggiatori che ormai invadevano le strade della capitale, della valle e i sentieri montani.
I nepalesi imparavano a confrontarsi con un turismo straripante, gestivano un enorme giro di affari, subivano vicende politiche interne molto inquietanti, ma continuavano a mantenere una notevole integrità morale, semplicità e schiettezza nei rapporti con le migliaia di persone che, da tutti i luoghi della terra, ogni anno si riversavano nella terra "dimora degli dei".
Ogni volta che sono atterrata nel piccolo aeroporto di Kathmandu, scendevo la scaletta dell’aereo, mentre mi incamminavo a piedi per l’applicazione del visto e le varie formalità, sentivo che la valle e le montagne attorno mi sussurravano "bentornata"!
Ci si può sentire a casa propria anche in mezzo a tanti volti sconosciuti.
La capacità di accoglienza dei nepalesi è da imitare.
E non importa che tu sia un ricco turista, un commerciante, un camminatore di montagna o fai parte di una spedizione che scalerà le vette più alte: tu sei sempre il benvenuto.
Il popolo nepalese sembra dire: "Tu sei qualcuno che viene da lontano per vedere le meraviglie di questa terra e allora a te va il sorriso, a te auguro il benvenuto. Namasté!"
Il primo viaggio che feci con mio figlio fu, senza dubbio, il più carico di significato. Aditya aveva quattro anni quando il Nepal mi chiamò a tornare.
E per farlo, spedì nel mio ristorante un messaggero che, di certo non poteva essere uno qualunque. George, americano di Boston, figlio di quella stirpe africana che aveva dato il sudore e spesso la vita nei campi di cotone, era uomo dal modo di fare istrionico, non passava certo inosservato.
George, dotato di spiccate doti di veggenza, piombato magicamente a Khajuraho da Kathmandu, per innescare nella mia vita una serie di collegamenti ed eventi a catena, che mi hanno aperto nuove strade, amicizie e opportunità che hanno ancora una potente risonanza nella mia vita oggi: era il 1997.
George venne spesso mangiare nel mio ristorante, apprezzava la cucina italiana e, soprattutto, il modo in cui io la proponevo, semplice, secondo le ricette di casa mia, in un luogo ben lontano da qualunque civiltà occidentale.
Facevamo tutti, io affiancata da giovani indiani volenterosi, sforzi titanici per cucinare e servire pasta e lasagne, parmigiana di melanzane e tanto altro ancora, in mezzo a mille difficoltà.
Ma di questo parlerò un'altra volta...
Ora torniamo a George. Nacque tra noi un'amicizia. Molto di più: un'alleanza vera. Stava viaggiando da tanti mesi, gli ultimi due li aveva trascorsi in Nepal.

mercoledì 15 aprile 2015

Viaggio a Chitrakoot

Una nota speciale la merita la visita che facemmo alla città sacra di Chitrakoot.
Molte volte, il mio amico Govinda, davanti a una tazza di tè fumante, mentre sedevo nel suo negozio, nei giorni in cui il turismo scarseggiava e potevo prendere un po’ di riposo, mi aveva parlato di questa città non troppo distante dal luogo da Khajuraho dove abitavamo.
Dai racconti fatti  potevo dedurre che il luogo santo fosse anche, in qualche modo, magico.
Insomma, un posto  che doveva esser visto.
Intanto Aditya già camminava spedito e io mi sentivo che ce l'avrebbe fatta ad affrontare il viaggio, la novità del luogo dove non ci aspettavano comforts di nessun tipo neppure a poterli pagare.
Soprattutto, non saremmo andati soli io e lui. Aditya era già molto abituato ai viaggi  ma, fino a quel momento, mi ero limitata a  luoghi di cui conoscevo pregi e difetti. Ora si affrontava insieme "l'ignoto".
Govinda si offerse di essere la nostra scorta. Era stato proprio lui a stimolare la mia curiosità. Lui conosceva la città santa e desiderava tornare a visitarla. Ecco, dunque, che potevamo disporre di una valida guida e, pertanto, non c'era più motivo di esitare.
All'ultimo momento, alla nostra piccola comitiva, si aggiunsero altre persone che avevo conosciuto perché clienti del mio ristorante. 
Si trovava a Khajuraho, in vacanza, una donna americana con i suoi due figli adolescenti. La famigliola stava effettuando un viaggio “pellegrinaggio”: uno dei figli, il ragazzo, era nato in India, abbandonato nell’ashram di Madre Teresa a Calcutta e adottato da lei quando aveva quattro anni.
Il ragazzo non ricordava nulla dei primi terribili anni della sua vita e guardava l’India con occhi pieni di stupore e con un senso di totale estraneità.
Quando seppe del viaggio che mi accingevo a intraprendere, lei, Noah, espresse il desiderio di unirsi a noi per visitare Chittrakoot; intuiva, a ragione, che doveva afferrare al volo questa opportunità di vedere un luogo ancora poco o per nulla frequentato dal turismo occidentale, sicuramente fuori dalle rotte del turismo di massa.
La città si trova nella stessa regione dove vivevo ma, nondimeno, il viaggio era lungo e impegnativo: dalle quattro alle cinque ore: un continuo, incessante sobbalzare delle ruote della nostra auto su strade impervie. Attraversammo luoghi e villaggi isolati dove  neppure sarebbe stato possibile trovare un telefono funzionante. 
Dopo Satna, non  incrociammo neppure i pericolosi camion che attraversano l'India in lungo e in largo, a qualunque ora.
Arrivammo a destinazione nel primo pomeriggio e, dopo aver scartato un paio di alberghi i cui pavimenti non erano stati spazzati da almeno un mese, ci venne indicata una casa per pellegrini appena inaugurata. Scintillanti pavimenti di marmo, stanze accoglienti, bagni molto puliti. I materassi erano ancora imballati nella plastica. Lo staff era costituito da persone dolci e gentili che furono ben felici di avere tra i primi ospiti la nostra simpatica comitiva.
Il luogo era "no profit" perché donato ai pellegrini da un industriale che aveva deciso di investire una parte del suo capitale a  beneficio di quella umanità che voleva trascorrere qualche giorno in un luogo di preghiera dove si diceva fosse passato il dio Rama.
Ci servirono una cena semplice e squisita. Verdure e daal (lenticchie) cucinati fresche per noi. Chapati (pane indiano senza lievito), caldo e in abbondanza, il tutto servito con ampi sorrisi.
Aditya prendeva padronanza del luogo e scorrazzava, sicuro di sé, nella grande “hall” dove era stato sistemata l'altare per la puja quotidiana.
Sembrava di essere in una vera famiglia i cui membri si incontravano per la  prima volta ma, chissà perché, interagivano  tra loro con quel fare che solo tra consanguinei garantisce una totale assenza di imbarazzo e una condivisione gioiosa.
Dormimmo come sassi: ci sentivamo al sicuro e fummo molto grati allo sconosciuto industriale che aveva preparato questo luogo accogliente per noi.
 
La città santa di Chittrakoot sorge in una zona di estese foreste.
I templi sono molteplici ma, più interessante è “la discesa nel ventre della madre terra”: c’è una montagna cava, ai margini della città.
Ed ara questa che sembrava rappresentare la vera magia, il mistero.
Sentimmo una certa inquietudine già dai primi passi mentre scendevamo una scala agevole ricavata nella roccia. In fondo alla scala si apriva una grande sala di forma circolare e, al centro della stessa un semplice altare di pietra.
Quando guardammo in alto, vedemmo un masso di dimensioni enormi che la natura, nei suoi modi sempre insoliti e sorprendenti,  aveva voluto sospendere sopra l'altare e  sopra di noi.
Il masso aveva una forma somigliante a un cuore umano.
Rimanemmo estatici e fiduciosi a percepire l’energia di quel masso sulle nostre teste. Si sentiva chiaramente una pulsazione se si rimaneva in piedi per un po’ sotto al masso. Lo sappiamo bene che i minerali sono viventi e hanno specifiche onde di trasmissione della loro energia.
Nulla di strano che, in un paese come l’India, dove Bhumi Devi (la Madre terra) è una divinità, un luogo del genere venisse, a ragione, ritenuto sacro.
L’eredità spirituale di Chitrakoot risale a tempi leggendari. In questa zona di grandi foreste il Dio Rama, sua moglie Sita e Lakshamana, fratello del Dio, trascorsero undici anni e mezzo del loro esilio e qui,  grandi saggi come Atri, Sati Anusuya, Dattatreya, molti veggenti, devoti e grandi pensatori hanno trascorso lunghi periodi di meditazione e, anche la trinità composta da Brahma, Vishnu e Shiva, in questi luoghi, si è incarnata.
In quelle stupende giornate trascorse a Chitrakoot, ci siamo rinnovati, tra rocce, alberi e acque sacre: l’energia vibrazionale di Bhumi Devi era costante, era a nostra disposizione e bastava essere lì, nelle strade, nei sentieri per ricevere il rinnovamento che la Madre Terra ci elargiva in abbondanza.
Tornammo a Khajuraho stanchi ma pieni di entusiasmo per i doni ricevuti.





giovedì 5 marzo 2015

IL TEMPO DELLA MIA VITA A JAIPUR - La veggente e il santo Sufi

La veggente e il santo Sufi

Mentre vivevo a Jaipur strinsi una solida e consistente amicizia con la mia padrona di casa che occupava l’appartamento sovrastante il mio nella villetta di una silenziosa stradina del quartiere Civil Lines dove si trova la stupenda residenza del governatore del Rajasthan.

Man mano che lei, con prudenza e spirito di osservazione, comprese la natura della mia personalità, iniziò a raccontarmi le sue speranze, le sue angosce e le ritualità di preghiera, sue personali e della famiglia.

Sucheeta, questo il nome della signora, funzionaria di banca che aveva cresciuto con amore due bellissimi figli, il suo orgoglio, e aveva accudito e continuava a farlo, un marito,in passato incurante e indifferente (almeno sul piano emotivo) rispetto a tutto il piccolo nucleo familiare. 

Senza dubbio, Sucheeta aveva avuto costanza e coraggio, fermezza e stabilità, sostenuta dalla fede che Dio avrebbe provveduto a ricompensarla e sanare le ferite del suo cuore inferte da un marito molto egoista che lei aveva servito e continuava a servire con devozione, anche ora che era colpito dal Parkinson giovanile.

Dopo alcuni mesi di sereni rapporti di buon vicinato, diventammo amiche e mi propose di recarmi con lei, ogni giovedì, da una sua parente che offriva preghiere e canti a un santo, saggio e poeta Sufi di cui conservava gelosamente una statua arrivata fino a Jaipur dal Pakisthan quando i genitori della donna, Sindhi per casta, avevano lasciato il Pakisthan ese ne erano tornati in India ai tempi della “partition”.

Accettai volentieri di prender parte a questi incontri. Andavamo sempre in tre perché Sucheeta aveva un’inseparabile amica del cuore, un’insegnante di scuola elementare sua coetanea. 

Eccoci qua, pronte per la cerimonia, prima di uscire di casa, immortalate, sul balcone di Sucheeta, da un'amica italiana in visita. Il pomeriggio del giovedì era sempre una festa per noi, per stare insieme in una dimensione diversa dalle nostre solite abitudini.

Sucheeta in bianco alla mia sinistra, a destra Jyoti, la sua amica










A bordo della mia auto si partiva, gioiose di poter vivere un momento tutto per noi. Sucheeta mi indicava paziente il percorso che non imparai mai. 
Vai dritta, dopo il ponte a destra, dopo il tempio ancora a destra e poi, dritta dritta, schivando scooter, biciclette e capre nonché i pedoni che affollavano i bazar di periferia. 
Una sosta al negozio per acquistare un pacchetto di incensi che doveva essere sigillato, nuovo di zecca per il santo, una corolla di fiori e qualche dolce.

E via di nuovo, ormai c'eravamo quasi. La "veggente" ci attendeva sulla soglia. Il vicinato, curioso, guardava questa donna occidentale che andava a pregare nella casa che ospitava la statua del santo.

Non mi ci volle molto per comprendere che la depositaria della statua, gelosamente custodita nella stanza puja della casa, era una veggente.


Al nostro arrivo nella casa, ci accomodavamo, sedute a terra, su stuoie, la statua era posta in alto rispetto a noi, su uno scaffale. Ricordo bene il mantello e il turbante colorati di verde che avvolgevano il santo che lei chiamava “Sachal Sarmast” che significa “santo estatico di verità”.

Si accendevano incensi, si offrivano fiori e si esponevano i dolcetti che avevamo acquistato per la cerimonia.

Al suono di una campanella, la veggente iniziava a intonare canti. 

La sua stupenda voce trasformava tutta l’atmosfera intorno a noi che accompagnavamo con battito cadenzato delle mani. In questa prima fase erano ammesse solo donne ad accompagnare la veggente nel suo viaggio attraverso l’armonia che la spingeva all’estasi e ad un stato di trance. 

Terminati i canti, ci guardava e, se qualcuna di noi, stava attraversando un momento difficile, lei dava un suggerimento, a volte indicava una via di guarigione, se il Santo gliel'aveva suggerita.

Con il suo canto infondeva energia curativa all’acqua e ci invitava a berne dopo aver poggiato il bicchiere sulla nostra testa.
Poi riprendeva il canto. 

Poco dopo, le porte venivano aperte per la cerimonia dell’arthi (il fuoco sacro)


a cui erano ammessi gli uomini della casa o del vicinato che si mantenevano in gruppo e nel retro rispetto al gruppo femminile che si stringeva intorno alla veggente.

Abbiamo sognato insieme, a quei tempi, di pianificare un viaggio fino alla tomba del santo sufi, in Pakisthan, lei lo desiderava molto e io consideravo un privilegio poter compiere questo pellegrinaggio con loro ma poi, come la veggente aveva previsto, gli eventi precipitarono e non ci fu più modo di portare a compimento il nostro progetto.


E forse, Sachal Sarmast, quello che aveva da dirmi me lo aveva fatto sapere al momento giusto e non c’era alcuna utilità nell’andare a visitare la sua tomba soprattutto considerato che, a causa delle continue tensioni tra India e Pakisthan, il viaggio avrebbe potuto risultare pericoloso.

giovedì 5 febbraio 2015

LE CASE DELL’ACQUA, LA TERRACOTTA E IL RAME


LE CASE DELL’ACQUA, LA TERRACOTTA E IL RAME

Ho dovuto vivere in un paese tropicale per comprendere appieno l’importanza e l’efficacia di un bicchiere d’acqua e il suo impatto immediato, sul corpo e sulla mente, quando ero in giro nelle città, nei bazar e il sole batteva a picco, implacabile nelle ore più calde della giornata.

C’erano, un tempo, ancora negli anni ’90 e forse ci sono ancora delle costruzioni, basse, nei punti chiave dei bazar, con delle piccole finestre senza vetri, davanti alle quali si fermavano i passanti accaldati e assetati. 

Da occidentale e turista, osservavo con curiosità, avvicinandomi e, almeno, fintantoché non ho vissuto come una persona del luogo, avevo perplessità a servirmene.

Dietro alle finestre erano pazientemente sedute persone, dipendenti dell’azienda comunale, che, da bricchi di rame dai lunghi becchi (come vuole la saggezza auyrveda), si apprestavano a versare acqua nel cavo della mano di chiunque si avvicinasse alle finestre per bere.

All’interno della grande stanza che ospitava quelli che chiamerei i “coppieri”, c’erano grandi otri di terracotta che mantenevano fresca l’acqua che veniva versata all’interno al mattino all’alba quando l’azienda delle acque apriva i rubinetti degli enormi serbatoi (vere torri) alla periferia delle città e l’acqua scorreva allegra riempiendo i panciuti recipienti.

In una città come Alwar c’era un solo bazar e, certamente, nel 1991, era impossibile avere acqua imbottigliata, nessuno degli abitanti si sarebbe mai neppure sognato di spendere 8/10 rupie per un litro d’ acqua conservata, per giunta, nella plastica.

Secondo l’ayurveda, se l’acqua viene bevuta dopo essere stata in un recipiente di rame tutti e tre i dosha del corpo (Vata, Pitta e Kapha), si equilibrano. 

In Ayurveda l’acqua non è considerata un semplice liquido dissetante ma riveste il ruolo di cibo e, come tale, nutre, lubrifica e rimuove le tossine dai canali. Ha un efficace potere disintossicante.

L’acqua, secondo l’Ayurveda, è: defaticante, digestiva, idratante, previene la stipsi e rende luminosa la pelle.

In India si beve sempre acqua prima di uscire di casa e, lo stesso si fa al ritorno, nei villaggi, spesso si è proprio accolti sull’uscio da una delle donne di casa brocca e bicchiere in mano, avendo scorto da lontano il familiare o l’ospite in arrivo, sa già quale sarà la sua prima richiesta: JAL o PANI (acqua). 

Bere e‘ d’obbligo anche ogni qualvolta si è mangiato qualcosa dal sapore dolce.