mercoledì 22 ottobre 2014

La famiglia del Rajasthan

Vivere con una famiglia del Rajasthan, in un villaggio, non è cosa semplice, soprattutto se hai sposato un indiano e sei una "nuora" occidentale.
.Il villaggio, Jat Behror, era affascinante perché intatto nello stile di vita, le tradizioni regolavano l'esistenza, le scelte e i ritmi dei suoi abitanti, uguali e ripetitivi con il  passare dei decenni, forse dei secoli. 
L'unica novità era costituita dal passaggio di qualche rara, sporadica moto e dall'elettricità per poche ore al giorno e non tutti i giorni.

I miei suoceri possedevano un'antica casa nel centro del villaggio e una casa moderna costruita a ridosso dei loro campi.
Io amavo la casa antica ma non c'era il confort del gabinetto!!!  Se non ci fosse stato questo inconveniente sono certa che avrei voluto vivere lì. 
Nelle stanze c'era tutta l'energia della vita che era stata vissuta tra quelle pareti, si poteva percepire uno "spessore", una vibrazione di presenze, di profumi, oserei dire di pensieri. 

Sembrava quasi che le pareti avessero una vita propria.
Mi piaceva il terrazzo che si affacciava sugli stretti vicoli, e la cucina sistemata in un angolo, i fornelli di terracotta a terra, a ridosso di una parete annerita dal fumo.

Al mattino, i pavoni si posavano sui terrazzi delle case, richiamati dai chicchi di grano che venivano lasciati lì per loro. 
I maestosi uccelli, dopo aver mangiato, con il loro volo basso e pesante, andavano a posarsi sui rami di alberi vicini dove potevano godere della frescura fino al calar del sole. 
Gli uccellini passeggiavano indisturbati sul terrazzo e visitavano le stanze nella speranza di poter beccare qualche briciola sfuggita all'implacabile "jaaru" (scopa) che una qualunque delle donne della casa, con puntigliosa solerzia, sventagliava sui semplici pavimenti, più volte al giorno..  

Al tramonto, in lontananza, in fondo ai campi si potevano scorgere, quelle che erano chiamate le mucche blu "nil gai" una razza di antilopi che godevano di grande rispetto e considerazione. Animali schivi e prudenti, potevano cibarsi di ciò che offrivano i campi coltivati e che fosse di loro gradimento. 






Il villaggio, a quei tempi, era servito dalla compagnia elettrica per una o due ore al giorno e non tutti i giorni. In quell'occasione si azionava la pompa elettrica che tirava su l'acqua dal pozzo e tutti si davano un gran da fare per riempire tutti i recipienti disponibili nella casa.

La famiglia mangiava soltanto ciò che era prodotto dalla propria terra  e beveva il latte munto dalla propria bufala e, se ce n'era a sufficienza, si potevano avere anche lo yogurth e il burro.

Il cibo, semplice e sapientemente speziato, era cucinato su fornelli fatti di terracotta il cui fuoco era alimentato da rametti secchi e sterco di mucca mescolato alla paglia e fatto essiccare al sole. 

Il pane (chapati) non lievitato, sottile e di forma circolare, prodotto fresco ad ogni pasto.



Fino al giorno in cui non mi lavai con l'acqua attinta dal pozzo di un certo tempio di un loro Guru deceduto da circa cento anni, non potevo entrare in cucina, e dovevo chiedere alle altre donne di servirmi persino un bicchiere d'acqua attinta dalla grande anfora di terracotta ... non ero purificata!

L'ora del tè così come l'ora dei pasti era stabilita dalla suocera, per me facevano un'eccezione perché straniera e accettavano il fatto che avessi altre abitudini, per quanto fossero stupiti che si potesse avere un desiderio diverso dal resto della famiglia! 
Nei caldi pomeriggi, mentre tutti si rilassavano sdraiati sui "charpoi", letti indiani, lasciando andare qualunque resistenza al sonno, io mi dedicavo alla lettura di qualche libro. 

Felice del silenzio di parole e di sguardi che si faceva attorno a me, mi portavo nella parte più alta della casa per guardare i campi in lontananza. La calura rendeva tutte immobili alberi, animali, esseri umani.

Le donne giovani, figlie e nuore, vivevano soprattutto nel retro della casa che, per fortuna si affacciava sui vasti campi.

Il patio era luogo degli uomini e delle donne anziane, le uniche alle quali era consentito parlare con uomini che non fossero il marito.
Le mie cognate avevano sempre il capo coperto da un lungo velo ed erano  pronte a farlo scivolare sul viso se sentivano avvicinarsi i passi di un uomo. Ammiravo la tempestività delle donne nel compiere quel movimento che avrebbe celato il loro volto al mondo maschile. Quando andavano vicino alla cisterna dell'acqua, situata nella parte antistante la casa, per lavare i piatti, rimanevano a volto coperto per tutto il tempo della durata dell'operazione.

Sbalordita cercavo di comprendere, attraverso l'osservazione, i loro comportamenti, le loro regole. 

Le sorelle di mio marito, nella casa dei loro genitori, godevano di maggiore libertà rispetto alle mogli dei fratelli. Non dovevano coprire il  volto davanti agli uomini e potevano anche sostare e sedere nel patio, parlare con il padre, con i fratelli, zii e cugini. A loro non era concesso di lasciare le mura di cinta della casa da sole, ma sempre, rigorosamente scortate da una donna anziana o da un uomo della famiglia. In strada non erano tenute a velare il viso.


Dopo il matrimonio, le giovani spose si stabiliscono nella casa dei suoceri e, a quel punto, con la massima tranquillità adottano tutta una serie di comportamenti obbligati a cui loro non pensano affatto di ribellarsi.
  
Non ho mai visto le altre nuore parlare con il marito in pubblico o di fronte a qualunque altro familiare di sesso maschile di età maggiore del marito. 
Per giunta, all'interno e nel retro della casa non accedevano mai estranei di sesso maschile, gli ospiti erano ricevuti dagli uomini della famiglia. 

Se i mariti avevano qualcosa da chiedere alle loro mogli, notavo che, in genere, si rivolgevano alla madre che faceva da intermediaria. 
Qualunque tipo di contatto fisico in pubblico, perfino lo sfioramento, era impensabile.
Non escono dalla casa a meno che non siano accompagnate e solo per "motivi giustificati", in quel caso, coprono il loro volto, abbassando il velo per tutto il tragitto da compiere. 

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